Nel movimento le parole sono importanti almeno se vogliamo che due persone si mettano in contatto per disquisire dello stesso. Senza parole ci può essere evoluzione del singolo soggetto se questo pensa a ciò che fa e se pensa a parole userà comunque delle parole per decodificare quanto ha fatto. Senza parole e senza pensiero cosciente ci potrà essere miglioramento (io temo modesto e non decisivo) grazie ad alcuni circuiti nervosi automatici che intervengono senza bisogno di una rielaborazione cosciente. Il muscolo più o meno si sviluppa così, non a caso noi esperti del movimento diciamo che il muscolo è la cosa più stupida che ci sia. Lo poni in una condizione di stress per esempio usando un sovraccarico (i mitici “pesi”) e lui reagisce senza pensarci su aumentando di volume. Peccato che questa reazione il più delle volte sia assolutamente inutile ed ininfluente ai fini del miglioramento della qualità del movimento proprio perché a livello nervoso non è successo proprio niente.
Le parole dunque servono per trasferire a noi stessi un certo concetto e allora possono essere di un certo tipo, non necessariamente facilmente comprensibili dagli altri, oppure devono essere di un altro tipo, più “universalmente” interpretabili (o “specificamente” interpretabili se la comunicazione intercorre fra due persone ben specifiche) per trasferire la comunicazione ad altre persone.
In tema di movimento io sono convinto che più che l’esperienza si possa trasferire l’entusiasmo ed è per quello che non esito a definire la materia del movimento un’arte più che una scienza.
L’esperienza è più facilmente interiorizzabile ed è quella che, anche senza parole, andrà a produrre l’affinamento dell’approccio al movimento nel singolo soggetto, ma se fosse facilmente trasferibile da soggetto a soggetto solo a parole probabilmente saremmo tutti dei campioni.
Quello che penso che sia più facilmente trasferibile a parole per conto mio è l’entusiasmo e forse sarò un illuso, perché non è detto che sia facilmente trasferibile nemmeno quello, ma penso che grazie ad un buon uso delle parole ci sia possibilità di contagio da soggetto a soggetto.
Cito una situazione dove le parole in realtà sono state decodificate dalle mie figlie e non dal sottoscritto che era il propagatore del contagio ma che testimonia come le parole vadano a sancire una situazione oggettiva che senza parole fa fatica a concretizzarsi in un’informazione trasferibile.
Secondo le mie figlie io sarei l’inventore dell’acido “euforico” che è quella cosa che emette il tanfo pestilenziale che io emano la domenica mattina quando rientro in casa dopo l’allenamento domenicale. E’ acido euforico perché generalmente parlo parecchio appena rientrato in casa. E’ un acido perché solo un acido può provocare quel tanfo ed è euforico, perché forse riesce in quella missione che io mi auguro che sia effettivamente possibile di trasferire l’entusiasmo per il movimento che è quell’informazione che temo che sia l’unica veramente trasferibile senza complesse decodificazioni da un soggetto che fa sport ad un altro.
Senza parole l’acido euforico non si trasmette, o meglio si trasmette solo nei suoi aspetti peggiori che è quel tanfo di sudore tipico di chi ha sudato molto, ma sono le parole a determinare che quel tipo di acido sia proprio quello euforico altrimenti potrebbe essere un qualsiasi altro acido, per esempio quello prodotto dalla fatica di chi ha fatto solo fatica senza divertirsi.
Nell’attività fisica le parole servono per provare a trasferire concetti ma servono anche per allietare i momenti della pratica sportiva. Vi sono momenti di routine della pratica sportiva, penso alla classica corsa lenta del corridore di lunghe distanze o alla ginnastica di mantenimento dell’anziano che si cura l’artrosi con il movimento nei quali non è necessaria una grande rielaborazione del gesto tecnico che essenzialmente deve essere ripetuto un certo numero di volte per poter produrre effetti benefici. In quei momenti le parole possono non riguardare direttamente l’attività fisica ed essere quelle di una normale discussione fra amici al bar mentre si sorseggia un bicchiere di buon vino. L’accostamento del movimento al vino non è casuale. Un po’ come il vino l’attività fisica, se blanda e non esasperata, stimola la conversazione, la facilita e da anche allegria, proprio come una moderata quantità di vino. Se la quantità di attività fisica sale e/o diventa più impegnativa allora la faccenda si diversifica rispetto al comportamento del vino. Il vino più ne bevi e più ti fa parlare fin tanto che non cominci a dire un sacco di castronerie e si capisce che sei ubriaco. L’attività fisica man mano che sale di intensità comincia a toglierti le parole ed in quel caso si dice che sei un po’ suonato più che ubriaco perché non ce la fai più a parlare normalmente. In un tempo felice, quando ancora non esistevano gli stramaledetti cardiofrequenzimetri (o comunque non erano strumenti a disposizione degli atleti), un certo Ernst van Aaken diceva che il ritmo ideale della corsa lenta era quello che permetteva una normale conversazione fra gli atleti. poi sono arrivati i cardiofrequenzimetri. la conversazione si è interrotta, e tutti a guardare quell’accidenti di display con i numerini insulsi che più insulsi non si può. Il cardiofrequenzimetro ha fatto nello sport ciò che nella comunicazione sociale ha fatto lo smartphone: ha interrotto la comunicazione. Riprendiamoci il diritto di parlare e mandiamo a quel paese una volta per tutte la tecnologia che invece di unirci ci isola.