LA MERITOCRAZIA NELLO SPORT E NELLA SOCIETA’

Lo sport è meritocratico per definizione. I primi 3 classificati pigliano le medaglie (e pure di valore diverso a seconda del piazzamento) gli altri non prendono nulla ed anzi è già tanto che venga riservata loro la possibilità di continuare a gareggiare.

E’ meritocratica anche la società e forse mai lo è stata come adesso dove il danaro è l’unico valore universalmente riconosciuto (per questo si dice che siamo in crisi di valori, perché , teoricamente, esisterebbero anche altri valori oltre al danaro…) e viene elargito secondo criteri meritocratici determinati dalla funzionalità di ognuno di noi nel sistema dei consumi.

Chi fa funzionare la società dei consumi viene premiato con il danaro, come se fosse una medaglia, chi non la fa funzionare o, peggio ancora, la ostacola non viene rimborsato in nessuno modo, non è funzionale a questa società, non produce reddito, non la fa andare avanti, altri valori che non siano connessi con l’economia non sono in ogni caso riconosciuti e premiati con il danaro. Semmai un eventuale premio può essere in altre forme in termini di popolarità o che so altro ma non riconosciuto nel modo convenzionale della società dei consumi.

Pensare ad uno sport meno meritocratico in una società altamente meritocratica è molto difficile.

Quando affermo che è la politica ad informare lo sport, la società civile ad informare lo sport e non il contrario, dimentico che lo sport essendo di base un gioco è anche un esperimento sociale. Potenzialmente, anche se non accade in pratica, lo sport potrebbe pure informare la società e siccome lo sport è per definizione quel luogo dove si sviluppa al massimo la competitività potrebbe pure essere che una società altamente competitiva guarda allo sport con un certo interesse perché è lì che le dinamiche della competitività mostrano nel dettaglio tutte le loro caratteristiche ivi comprese le loro aberrazioni.

Il campione che prende troppi soldi e diventa soffocante invece che trainante (come si sosteneva un tempo) nei confronti dello sport popolare può esistere solo in una società che lo tollera ma nasce da dinamiche dello sport. In primo luogo il campione è un campione e questo è un fatto squisitamente sportivo anche che ci siano il doping e l’antidoping di mezzo il campione è sempre un campione e lo è anche se un certo giorno fa vincere un altro al posto suo per motivi economici. Il non campione non ha questa opzione, può solo perdere o al limite può vincere pagando ma allora non è un campione vero. Quello che può decidere davvero cosa fare è il campione vero, che poi il suo atteggiamento nei confronti dello sport sia più o meno cristallino quello è un altro discorso ma se non è un campione può inventarsi tutti i trucchi che vuole che non riuscirà mai a fare la storia dello sport.

Dietro al campione vero c’è la società che decide che connotati dare allo sport. e allora se il campione è forte è un campione punto e basta e come tale sempre apprezzabile è poi la società a farne una specie di mostro che con le sue gesta si mangia gran parte della torta destinata a muovere lo sport. Se la società decide che devono esserci solo tre contendenti e che lo spettacolo deve restare confinato a vedere chi è il più forte dei tre tutti gli altri vanno a casa. Questa è un po’ la metafora dello sport attuale dove effettivamente la meritocrazia è esasperata e mentre i campioni prendono rimborsi sempre più folli le comparse prendono sempre meno fino a  far cambiare loro idea sull’opportunità di resistere in uno sport dove non c’è più spazio per chi continua a fare solo la comparsa.

Analizzando questo tipo di sport potremmo capire quelli che sono i problemi della società civile che si muove con le stesse dinamiche anche nel mondo del lavoro e così un lavoratore normale non serve più a nessuno, serve solo un “superlavoratore” che con le sue qualità riesce a rendere come tre o quattro lavoratori normali ed allora pagandolo anche il doppio è comunque economicamente conveniente per chi lo assume.

Servono solo i campioni, gli altri non servono. E questo è il tratto di contemporaneità che unisce lo sport moderno alla società attuale.

Sempre nella società civile esistono anche i “supercampioni” e sono quelli che di fatto monopolizzano l’attenzione del mercato e lo condizionano fino ad impadronirsene. Il funzionamento del mercato è regolato appunto da questi “supercampioni” che, come nello sport, hanno la possibilità di fare quello che vogliono.

Il limite a questa prepotenza è dato comunque dall’atteggiamento delle comparse che hanno l’unica possibilità di non stare alle regole del gioco ma non certamente quella di formularle come se loro fossero i protagonisti. Nello sport chi non vede prospettive può decidere di abbandonare. Nella vita chi viene sfruttato costantemente può decidere di scioperare ma non per questo avrà garantito un miglioramento del tenore di vita.

Occorrerebbe un supervisore e se si ha fede si crede in un Padreterno che legge anche queste cose e che capisca che l’esasperazione della competizione non porta da nessuna parte e così come lo sport concentrato su pochi eroi alla fine diventa noioso anche la vita incentrata solo sul benessere di chi orchestra l’economia non ha senso. Il paradosso del consumismo è che se la popolazione è talmente alla fame che non ha più i soldi per comprare nulla il consumismo crolla. Il paradosso dello sport è che se il campione è talmente forte che per gli altri non resta nulla alla fine rischia di restare solo e pertanto non c’è più competizione.

Facciamo parte di un gioco nel quale giochiamo in sette miliardi. Se riusciamo a giocare tutti ci divertiamo certamente di più, altrimenti se siamo solo in pochi ci saranno più garanzie di continuità per chi continua a vincere ma il gioco non può stare in piedi. Questo nello sport si capisce benissimo e si capisce anche osservando la società. Per conto mio è chi comanda la società che deve cambiare atteggiamento perché se pensiamo che siano i campioni dello sport a voler cambiare le regole allora vuol dire che di sport ci capiamo un po’ pochino. Qualcuno sostiene anche che ci capiamo poco di società se speriamo che il cambiamento di regole avvenga da parte di chi si è inventato queste.