AVERE O ESSERE NELLO SPORT

“Avere o essere” è un saggio di un famoso psicologo tedesco, Erich Fromm, scritto nel 1976 ed è la sua opera più famosa se non la più importante dove il titolo sintetizza in modo fantastico il contenuto del testo. Mi viene da pensare cbe quella sia diventata la sua opera più famosa proprio per il successo che ha avuto il titolo, si fosse titolato in un altro modo forse ben pochi avrebbero saputo dell’esistenza di quel saggio.

Come si potrà ben capire, anche per chi non lo ha letto, la contrapposizione fra l’avere e l’essere è decisiva nel nostro tempo dove pare che “avere” tante cose possa dare la felicità e dove forse solo adesso, quasi mezzo secolo dopo la stesura di quell’opera, ci si rende conto che è molto più importante “essere” che avere tante cose ed un’esistenza riempita di tante cose ma dove l’essere è un concetto vago ed offuscato è un’esistenza vuota.

Per dirla senza tanti fronzoli Erich Fromm era un comunista, ma un comunista che non ha mai appoggiato la politica dei paesi comunisti che riteneva soffocante al pari di quella dei paesi occidentali. Era semplicemente per una società della solidarietà e non della competizione votata all’accumulo di beni materiali grazie all’accaparramento del danaro. Diciamo semplicemente che il suo pensiero era avanti di cinquant’anni e che se i paesi comunisti avessero valutato la sua opera non avrebbero fatto la fine che hanno fatto così come se tutta la società capitalista avesse considerato il suo pensiero non ci troveremmo nella situazione in cui ci troviamo. Implicitamente era anche un grande ecologista perché non avrebbe mai anteposto il valore della produzione di ricchezza a quello della salvaguardia dell’ambiente.

Mi chiedevo se può esistere un’applicazione del concetto del grande saggio allo sport. Non che 46 anni dopo voglia riprendere quel titolo fortunato per fare un nuovo saggio che riprende quello e lo applica allo sport. temo di avere qualche numero in meno di Erich Fromm e attirerei più critiche dai suoi lettori che apprezzamenti da chi cerca nello sport significati che vadano oltre all’aspetto tecnico.

E comunque nei miei intenti strampalati c’è più quello di lanciare ad un messaggio a chi ragiona in termini di sociologia dello sport che non a chi ha già letto volentieri l’opera di Fromm e pertanto non ci impiega molto a traslare i suoi concetti in tanti ambiti diversi.

Esiste un “avere o essere” dello sport, ne sono profondamente convinto ed è quello che ne può modificare in senso decisamente positivo gli aspetti relazionali, motivazionali ed emozionali.

In uno sport dove l’importante è “avere” ci sono tante categorie, tanti sottogruppi e queste partizioni sono talmente tante che alla fine sono quante i partecipanti allo sport che valgono per la quantità di titoli che hanno accumulato. Uno è il campione del mondo e l’altro è il campione del condominio e sono indubbiamente due campioni diversi almeno per il trattamento economico che hanno, decisamente molto diverso.

In uno sport dove l’importante è “essere” c’è un unico mondo con regole uguali per tutti dove il cronometro viaggia allo stesso ritmo per tutti e il metro ha la stessa lunghezza per tutti e pertanto i problemi da superare sono analoghi per chi salta in lungo 2 metri e 80 centimetri come per chi salta 8 metri e 40, per chi corre i 100 metri in 23″ come per chi li corre in 10″ netti. In questo mondo sono tutti ugualmente campioni ed il curriculum con l’elenco dei titoli che si hanno non conta, ognuno ha il problema che vuole migliorare ed il suo problema è uguale a quello di tutti gli altri, non è angoscioso ed è ugualmente entusiasmante.

Uno sport così è un po’ difficile vederlo per televisione perché tutti partecipano e tutti guardano tutti. Nel momento in cui sei impegnato nel tuo sforzo nessuna performance gigantesca di nessun eroe dello sport di deve distrarre, nel momento in cui stai recuperando il tuo sforzo ogni gesta di qualsiasi sportivo è meritevole di attenzione anche quella dell’atleta del condominio a fianco che per certi versi può essere molto collegata alla tua.

E’ uno sport dove l’atleta “é” ed è in comunione con tutti anche se non ha nessun titolo. Io questa cosa l’ho vissuta da ragazzino nell’atletica, adesso si vive un po’ meno ma credo che sia l’ingrediente principale per rendere veramente interessante, coinvolgente ed entusiasmante lo sport. Provenivo dal calcio, prima di approdare all’atletica, sport del quale ero innamorato ma non troppo corrisposto sul piano tecnico: ero praticamente negato.

Il calcio lasciava spazio a tutti ma da quel punto di vista aveva (e per certi versi è ancora così…) una marcia in meno rispetto all’atletica. Nel calcio c’era il calcio del campetto vicino a casa, di tutti i giorni e poi c’era il calcio della televisione. Due pianeti diversi e a far da tramite a questi due pianeti l’organizzazione colossale delle squadre federali con centomila livelli diversi. Diciamo pure che approdato ad una qualsiasi squadra federale di qualsiasi livello dovevi sperare nella scalata al calcio stellare. si faceva fatica a vedere la luce in fondo al tunnel ma con una fantasia gigantesca la potevi pure vedere. Non se non riuscivi ad approdare nemmeno all’iscrizione ad una stramaledetta squadra federale e, ai miei tempi, sorrideranno i ragazzini di adesso, non era proprio facile. Io ero negato ma giocavo praticamente tutti i giorni, dopo un po’ non ero più proprio decisamente negato ma semplicemente scarso, con tutto quell’allenamento almeno la capacità di resistere tutta la partita ce l’avevo e quella di trattare la palla in un certo modo pure, mancavano tutta una serie di altre doti che ai miei coetanei facevano sentenziare: “A te in una squadra vera mica ti ci prendono, non provarci nemmeno…” e, non so se per fortuna o per sfortuna non ci provai mai. Visto che giocavo da terzino a sconsigliarmi il grande balzo fu un problema tecnico che per me era molto sentito in tutti i campi che frequentavo. Quando pioveva molto e c’era fango, i palloni di allora tendevano ad inzupparsi e quando si trattava di saltare di testa per contrastare il centravanti della squadra avversaria l’idea di anticiparlo di testa su un pallone infangato del peso di circa un chilogrammo non era proprio fantastica. Forse, in una squadra vera mi avrebbero bloccato molto prima di arrivare a quel problema oppure mi avrebbero insegnato ad affrontarlo. Al giorno d’oggi vedo i ragazzini delle scuole calcio. Per certi versi li invidio per altri no. Noto che molti hanno piedi meno precisi di quelli che io avevo alla loro età, e li invidio perché hanno trovato posto in una squadra vera nonostante quello, liberi di sognare quello che vogliono visto che sono inseriti in una squadra “vera”, al tempo stesso mi rendo conto che questi ragazzini hanno i piedi meno precisi dei miei perché hanno giocato molto meno di quello che abbia giocato io alla loro età e ancora adesso purtroppo si stanno allenando meno di quello che io ancora faccio in atletica pur avendo sei volte la loro età.

Quando sono passato all’atletica ne sono rimasto subito affascinato e dopo pochissimi giorni non sarei più tornato indietro nemmeno se mi avessero proposto due fustini in cambio di uno come recitava una famosa pubblicità del tempo. C’era che l’atletica ti mostrava tutto subito senza costringerti a guardare la tv. O meglio anche l’atletica la potevi guardare in televisione, (meno del calcio a dire il vero…) ma era la stessa che vedevi al campo sportivo. Poco più tardi a sedici, diciassette anni quando andavo a fare le gare senza girare tanto il mondo mi trovavo nella stessa sede di gara dei campioni e anche se loro vincevano ed io arrivavo ultimo era come se le olimpiadi fossero venute a casa mia senza che io fossi andato alle Olimpiadi. Insomma io in televisione vedevo le gesta eroiche di gente che vedevo comunemente al campo sportivo (una per tutte Sara Simeoni, e speravo pure che il suo allenamento fosse lungo perché se lei andava via prima di me il custode del campo probabilmente sarebbe venuto a cacciarmi via perché ero minorenne e non potevo restare solo nell’impianto) e con i quali pur senza essere nella stessa batteria andavo a gareggiare. Ricordo un certo Claudio Patrignani che chi mastica di atletica sa benissimo chi è perchè ha vinto una grande sfilza di titoli italiani sui 1500 metri, che il solo fatto che fosse presente alla riunione dove partecipavo io, era grande motivo di orgoglio. Chi se ne frega se era in una serie di tutt’altro rango, era comunque quella competizione.

Un giorno, un po’ più grandicello, capitò che il famoso tecnico Giorgio Rondelli urlasse “Forza Claudio!” mentre io stavo transitando agli ultimi 100 metri di un 800 dove stavo facendo il mio record personale. Quel Claudio non ero io ma lui (pure lui Claudio) che era al mio fianco in quella buona gara. Poi lui, finì un paio di decimi più avanti ma insomma avevo corso il rettilineo finale con il mio idolo. Temo che quel “Forza Claudio”, del tutto casuale sia stato il top della mia carriera. Con tutto il rispetto per Rondelli, tecnico che stimo tantissimo ed ancora in giro per le piste di atletica, se quel “Forza Claudio” fosse stato indirizzato a me non avrebbe erogato la potenza del “Forza Claudio” casuale. No, quel Claudio era proprio Patrignani ed il fatto che io ci fossi a fianco dopo tredici anni di entusiasmante carriera nell’atletica forse non era nemmeno del tutto casuale.

La differenza fra l’avere e l’essere in atletica per conto mio sta in questi dettagli. “Avere” vuol dire detenere dei titoli che ti consentono di fare sport magari stipendiato con dei premi in danaro che ti danno una gratificazione economica che va anche ben oltre la gloria del risultato agonstico. L’essere invece è “essere” lì, presente assieme al campione anche se non sei un campione ma per il solo fatto che ti alleni puoi sperare di diventarlo o comunque sapere di aver la possibilità di gareggiarci assieme.

In tal senso per conto mio l’atletica dei miei tempi aveva anche una marcia in più rispetto a quella di adesso. Il giorno che siglai il mio ultimo record personale sugli 800 metri (che purtroppo è ancora record sociale della mia società, ma di quello non c’è da farsene vanto, vuol solo dire che in 37 anni non siamo riusciti a trovare un discreto ottocentista che si impegni come di deve per battere ‘sto stramaledetto tempo…) a fare l’andatura (la cosiddetta “lepre”) c’era un atleta che aveva un record personale sugli 800 metri di 1’45”. Era un campionato regionale e che io io trovassi lì in quella batteria era già qualcosa di anomalo. Vinse la batteria l’attuale presidente della Federazione di Atletica, facendo il suo record ed io arrivai quinto con il mio mglior tempo di sempre. La lepre ha fatto il suo dovere con una regolarità encomiabile ma ancora oggi quando io vedo qualcuno che ha preso parte a quella serie sostengo curiosamente che oltre che una buona lepre abbiamo pure avuto una discreta dose di culo. In rettilineo opposto alla retta d’arrivo abbiamo preso una folata di vento alle spalle. Non dico tanto ma almeno due decimi di secondo ce li ha regalati, io poi che ero ancora ultimo in quel momento quel vento me lo sono preso tutto. Pochi secondi più tardi quando abbiamo affrontato il rettilineo finale e quel vento doveva presentare il conto ha pensato bene di calmarsi. Fine delle folata rettilineo senza vento contro. Quando racconto queste cose si mettono a ridere. E di quei dieci io “sono” quello che racconta quella storia. Non “ho” nessun titolo. C’ero allora e ci sono adesso quando racconto questa storia e rendo quella gara più famosa di quanto fosse allora.

Se vi aspettavate un articolo molto tecnico nel quale con piglio scientifico vi spiegavo perché nello sport è più conveniente “essere” che “avere” siete rimasti delusi. Niente di tutto ciò. L’atletica è una scienza dove non si ha praticamente nulla. Si, si possono avere dei soldi ma quelli c’entrano pure poco con l’atletica c’entrano più con un discorso di sponsor che se non avessero l’atletica si inventerebbero qualcos’altro per metterci dei soldi da investire. Più che altro si “è” dove quell’essere ha le mille sfumature dello sport praticato che è lontanamente parente dello sport televisivo e beneficia di questo solo se ne è solidamente collegato.

Quando un personaggio apparso prima di Erich Fromm diceva che “L’importante è partecipare e non vincere” chiariva anzitempo questo concetto.

La mia osservazione finale è come per certi versi Fromm e De Coubertin siano collegati così come lo sport e la società civile sono collegati. Nello sport c’è indubbiamente la componente agonistica, il gioco, la competizione. si gioca anche se non si hanno molte possibilità di vincere. Il fatto che il giocatore sia rispettato per quello che “è” più che per quello che “ha” e che lui stesso sia gratificato in primo luogo dalla partecipazione non in subordine al successo cambia tutto il panorama emotivo.

Molto spesso ci lamentiamo del fatto che si fa fatica a modulare la componente agonistica dello sport e si tende ad andare su eccessive drammatizzazioni della stessa. Io dico che trattando di sport questo, tutto sommato è un peccato veniale e proprio lo sport dovrebbe insegnarci a dosare questa componente agonistica. Il problema è che nella società attuale il difetto di agonismo esiste a tutti i livelli e pertanto lo sport viene preso a modello non nei suoi aspetti più edificanti ma in quelli meno gestibili. Insomma invece di dire che tutti gli sportivi hanno diritto a vivere con entusiasmo lo sport anche chi non vince proprio un cavolo, si può finire per dire che pure nella società civile vengono rispettati solo quelli che vincono. Gli altri sono solo un inutile peso. Su questa cosa io ho un mio punto di vista personale. Mentre con riferimento allo sport mi piace quello dove ci sono tutti, forti e stracci, campioni e mezze calzette, con riferimento alla società civile quando ci sono strane partizioni tendo ad essere un po’ parziale: ho passione per le mezze calzette che apprezzo di più anche da un punto di vista artistico. Ognuno ha le sue passioni e quando si tratta di arte si fa pure molta fatica a discuterne: ognuno dice la sua.