I protocolli sono di moda. Purtroppo nello sport non servono, sono fuorvianti e appiattiscono ogni tipo di intervento sulla preparazione.
Questo è un concetto chiave che gli allenatori e gli insegnanti di educazione fisica devono capire se non vogliono diventare dei medici. Per carità, la professione di medico è una bella professione anche se ha degli oneri che quella di esperto di attività motoria non comporta ma, in certi ambiti, con quella di allenatore, operatore sportivo o anche semplice istruttore, non c’entra proprio nulla.
L’eccesso di medicalizzazione, soprattutto nello sport di alto livello, ha prodotto un pericoloso equivoco: che laddove non arriva l’allenatore arriva il medico e pertanto l’allenatore può permettersi il lusso di sbagliare che tanto se ciò accade arriva il medico a metterci una pezza ed a riparare i danni di una scelta metodologica dell’allenamento scorretta.
E’ vero che l’allenatore può permettersi il lusso di sbagliare e anche per questo non adopera “protocolli” che per lui sarebbero estremamente limitanti, è vero che lavorando con soggetti sani l’errore nella maggior parte dei casi è un peccato veniale ed anzi aiuta a comprendere certi aspetti della preparazione (il famoso “sbagliando s’impara” che non è per niente una panzana) ma perseverare nell’errore confidando nell’intervento medico è invece diabolico ed è una cosa da non fare.
Dunque, trattando di protocolli, il primo errore da non fare è quello di caricare in modo indiscriminato in modo da far partire il classico protocollo medico che, quello sì, è proprio un protocollo standardizzato ma si porta avanti a suon di farmaci innescando una procedura che per l’atleta sano non è per niente raccomandabile.
Pertanto l’allenatore non può certamente agire con il paraocchi, deve sempre stare terribilmente attento a ciò che combina, è costretto a rivedere le sue idee di preparazione giorno dopo giorno, proprio perché non esiste un protocollo ed è praticamente sempre in continua e costante sperimentazione con il suo atleta che più si allena e più offre reazioni allo stimolo allenante del tutto imprevedibili.
Anche a livello di fisioterapia la riabilitazione di un soggetto normale o quella di uno sportivo di alto livello (che, è bene specificarlo, non è un “soggetto normale”) sono due cose molto diverse e pertanto ciò che è sufficiente ed accettabile per uno non lo è per l’altro.
Mentre il fisioterapista lavora sul modello di un protocollo con il soggetto “normale” così come può fare un medico con un suo paziente, quando si ha a che fare con l’atleta di alto livello subentra una seconda fase dove il solo protocollo non è più sufficiente e bisogna inventarsi qualcosa per far digerire all’atleta carichi di allenamento che possono facilmente far tornare ad una situazione precaria e che necessita dell’intervento del fisioterapista.
Praticamente il fisioterapista dice “Io l’atleta l’ho sistemato, se adesso tu lo rompi di nuovo nello stesso modo di prima allora sei tu che hai sbagliato perchè hai proposto carichi che sai che non puoi proporre.”
Quando l’allenatore s’impunta ed ha folli pretese di ottenere dal fisioterapista la “supersalute” dell’atleta, quella che ti fa reggere anche carichi non fisiologici, allora vuol dire semplicemente che l’allenatore non ha la fantasia di innovare e proporre carichi al suo atleta che abbiano qualche speranza in più di andare a bersaglio.
Insomma siamo sempre a tentare di capire se è il sanitario che non ha fatto fino in fondo il suo lavoro o se è il tecnico che insiste sempre negli stessi errori perché ha la pigrizia di non sperimentare nuove vie che si rendono necessarie quando l’atleta si mostra insofferente nei confronti di un certo tipo di preparazione.
A parere dello scrivente, e forse sarò un po’ troppo severo nei miei confronti e pure con i miei colleghi, molte volte si ricorre al fisioterapista o anche al medico generico quando invece si tratterebbe semplicemente di cambiare preparazione per non incappare in squilibri che tutto sommato sono anche abbastanza facilmente prevedibili.
Mi viene in mente la famosa carenza di ferro dei corridori di lunghe distanze che molte volte viene compensata con cure che si potrebbero evitare semplicemente riducendo il carico di preparazione. Il protocollo è quello che applica il medico quando gli arriva l’atleta che, a quel punto, non è più sano. Il “non protocollo” è quella fantasia che deve avere il tecnico per prevenire questa situazione e portare in forma l’atleta con strategie che non lo espongano al rischio di certi squilibri.
Dunque, sempre a mio parere, il buon tecnico è quello che ricorre molto raramente all’aiuto del medico per il suo atleta, quello che invece confida in quello per continuare a proporre carichi di allenamento molto elevati lo vedo un po’ come un alchimista che sperimenta in modo un po’ pericoloso.
In realtà io dico che il buon tecnico sperimenta proprio tutti i giorni ed è valido proprio in quanto ha questa capacità ma è un diverso modo di sperimentare e si arriva al paradosso che chi più sperimenta sul campo meno ha necessità di “sperimentare” la bontà dell’assistenza medica. Non cadiamo nell’equivoco di pensare che l’assitenza medica sia di tipo sperimentale, al contrario quella è fortemente standardizzata e per quello ogni atleta seguito bene non dovrebbe mai cascare nelle insidie dell’antidoping che si basa su protocolli molto rigidi, ma quello che sostengo io (forse utopia) è che l’atleta seguito bene dell’antidoping proprio non gliene frega niente perché non ricorre praticamente mai all’assistenza dei sanitari e questo può farlo solo se il suo tecnico sperimenta di continuo perché solo in quel modo può raggiungere elevati livelli di rendimento senza caricare troppo.
Non sono discorsi semplici e forse riguardano più lo sport di alto livello che quello dei comuni mortali. Non a caso ho titolato che “Non esiste alcun protocollo per fare il record del mondo dei 100 metri” ma, concettualmente, ritengo che il protocollo non deva esistere nemmeno per correrli in 15″ perché ogni atleta per questo obiettivo dovrà percorrere delle sue strade che non sono quelle degli altri. La rottura di scatole dell’esperto di attività motoria è che non sa praticamente mai se sta facendo giusto o meno. Il vantaggio è che se anche sbaglia ha tutto il tempo per porci rimedio senza dover telefonare continuamente al medico. Se poi consultare il medico per ogni fesseria diventa di moda allora io affermo che con la carenza di medici che c’è è opportuno lasciarli per chi ne ha veramente bisogno e dunque per chi ha vere patologie e non patologie indotte dai nosti errori.