LE DOMENICHE A PIEDI

Per me le domeniche a piedi non sono quelle che ogni tanto fanno finta di fare adesso nelle nostre città con mille deroghe che si e no che te ne accorgi che vi sono delle limitazioni del traffico ma quelle veramente a piedi della crisi petrolifera del 1973. L’austerity, come lo chiamarono, per certi versi fu una vero miracolo, una vera manna, purtroppo irripetibile per non danneggiare in modo clamoroso l’industria automobilistica che avrebbe potuto patirne danni colossali. Quelle poche domeniche furono sufficienti per presentare agli italiani un’Italia da sogno. Città che improvvisamente diventano enormi campo giuochi da 50 milioni di metri quadrati. Io all’epoca, anche se non ci crederete perché faccio discorsi da “vecchio-vecchio” ero un bambino ed i bambini furono proprio i destinatari più felici di questo enorme regalo che lo Stato Italiano fece all’intera popolazione.

Fu allora che nacque la mania delle corse stracittadine, quelle corse con migliaia di persone che non sanno correre ma provano a correre lo stesso e anche quello, anche se un po’ buffo, era un segnale di civiltà. Non è necessario essere dei campioni per mettersi a fare una qualsiasi attività sportiva e gli italiani adulti si misero a correre con lo stesso spirito con il quale un bambino che non sa giocare a calcio si mette in mezzo agli altri lo stesso, per giocare.

Quelle corse alla fine produssero anche un certo numero di campioni e se qualcuno vuol indicare come vertice di quel movimento i vari Pizzolato, Poli e Bordin che qualche anno più tardi ottenerono grandi successi nelle corse su strada io potrei raccontarvi che il momento top di quell’epopea potrebbe anche essere fatto coincidere con lo svolgimento di una di quelle maratone che si facevano in quegli anni sul nostro territorio.

C’ero anch’io, un po’ più grandicello, nel novembre del 1983, in una giornata piovosa, alla Maratona di Cesano Boscone, una tranquilla maratona alla periferia di Milano, detto fra noi nemmeno una periferia molto bella, una di quelle poche periferie che non riuscivano a diventare belle nemmeno con il blocco delle auto durante l’Austerity. Ma ormai l’Austerity era già passato da dieci anni ed in questa periferia non bella ma utile per farci stare il percorso di una maratona si erano dati appuntamento un migliaio di atleti amatori provenienti dalla zona e pure da un po’ tutto il Nord Italia perché già allora i maratoneti avevano il vizio di spostarsi per cercare le maratone organizzate meglio, quelle con il percorso più scorrevole dove poter ottenere una buona prestazione cronometrica.

Quel giorno corsi la mia maratona con vero spirito sportivo, io in realtà ero già un ottocentista e pertanto per me la maratona non era altro che quel giochino che segnava il punto più alto della mia preparazione invernale, al culmine della preparazione invernale avevo questa mania di correre una maratona giusto per dimostrare a me stesso che chilometri ero in grado di macinarne abbastanza senza troppi problemi, dopodiché passavo alle cose serie ovvero alla preparazione per la mia vera gara, un po’ più complessa e certamente non solo a base di corsa lunga e lenta. Passai circa a metà gara con un distacco abissale sui primi e quella non era  una sorpresa perché il mio valore prestativo sulla maratona non era certo di livello assoluto ma quello che mi stupì fu che vedendoli venire incontro (loro avevano già passato da un tot. il giro di boa e stavano tornando) e potendo calcolare a che ritmo viaggiavano perché avevo i vari riferimenti chilometrici (obiettivamente a quei ritmi io potevo fare anche tutti i calcoli del mondo perché non ero affaticato ma dovevo solo trovare qualcosa a cui pensare per far arrivare il 42° chilometro) capii che al ritmo di 2 ore e 16′ – 2 ore e 18′ c’era veramente una marea di soggetti che stavano correndo. Erano tutti italiani, non come adesso che il primo italiano passa dopo un quarto d’ora, ma che dico tutti italiani, mi sa quasi tutti lombardi perché la maggior parte di quei personaggi veniva dalle zone vicine e quella gara non si poteva certo assimilare ad un campionato italiano dove sarebbero certamente accorsi anche i più forti maratoneti delle regioni più distanti. Insomma in una gara quasi regionale c’erano almeno una trentina di atleti che stavano correndo ad un ritmo sulla maratona che adesso in Italia riescono a tenere si e no dieci atleti. Altri tempi, era veramente il top della corsa su strada italiana.

Ma io non ho nostalgia di quello, non me ne frega niente se il miglior italiano piglia dieci minuti di distacco dal miglior keniano e pare che i tempi della scuola italiana delle corse su strada siano passati da un secolo, la mia nostalgia è proprio su quelle domeniche a piedi, su quelle domeniche quando potevo prendere la mia biciclettina, mandare a quel paese mia mamma che mi diceva “Mettiti la sciarpa e non andare troppo distante che è pericoloso” e andare ad esplorare senza concreti pericoli le periferie della mia città. Periferie che senza auto diventavano quasi tutte belle, per questo sono un po’ severo con quella di Milano che, obiettivamente, negli anni ’80 aveva bisogno di qualcosa in più del blocco delle auto per poter essere dichiarata vivibile.

Potessimo riprendere davvero dei blocchi autentici del traffico e non finti come quelli attuali, ma non si può perché ancorché in crisi, l’industria automobilistica comanda ancora la politica, anzi forse continua a comandarla proprio perché è in crisi, ci accorgeremmo in un istante che le nostre città sono fantastiche, sono luoghi da sogno. Sono fantastici i centri storici, autentici gioielli e sono gradevoli pure le periferie senza auto. Sulle periferie c’è da dire che basta togliere le auto per capire cosa c’è che non va, se c’è qualcosa che non va. Con le auto certe periferie fanno talmente schifo che non si sa nemmeno da che parte cominciare per renderle gradevoli, senza auto, come per incanto il problema si evidenzia subito e viene voglia di dare un parere costruttivo come se il problema non  fosse solo di chi ci abita ma anche di chi ci passa in mezzo occasionalmente.

Le domeniche a piedi sono una leggenda dei tempi andati che tanti non hanno nemmeno avuto la fortuna di vivere. Ecco, io posso ritenermi fortunato perché se quelli un po’ più vecchi di me hanno avuto la sfiga di vivere la seconda guerra mondiale e adesso di fronte alle fandonie del sistema con il più alto tasso di corruzione di tutti i tempi mormorano “Beh, va là piuttosto che venga un’altra guerra…”, io invece posso dire di aver vissuto in diretta un errore politico clamoroso che ci ha fatto vivere momenti da sogno. Purtroppo di quell’errore se ne sono accorti subito e così è durato un amen. Per certi versi sono un po’ sfortunato perché invece di dire “Beh, va là piuttosto di un altra guerra”, sono un po’ triste e dico: “Se questi quattro deficienti trovassero la forza di reagire alla prepotenza del mercato e lavorassero davvero per un mondo più vivibile ci sarebbe da lavorare per tutti e potremmo vivere in città fantastiche”. Ma questo è solo un sogno, perché anche se un autobus porta cinquanta automobilisti e lo sanno anche i bambini delle elementari, di produrre più autobus ed assumere più conducenti non gliene frega niente a nessuno, sia mai che peggiora ancora il mercato dell’auto.