VELOCISTI E RESISTENTI

Questo non è un articolo di tecnica (ce ne sono su questo sito?!?) ma una serie di considerazioni sul fatto che il mondo è spartito fra velocisti e resistenti più o meno come abbiamo fibre bianche nei muscoli o fibre rosse. Poi, ovviamente ci sono gli ibridi, ma molti di noi presentano tratti caratteriali che sono da velocista o da soggetto resistente in modo piuttosto marcato.

Quando ero ragazzino i velocisti ci prendevano in giro (io ero un “resistente”) dicendo che noi eravamo condannati a correre nelle corse lunghe perché non eravamo in grado di vincere prima. Se a loro per vincere bastavano 100 metri (anche 80 nelle categorie giovanili) a noi ne occorrevano 2000 (e accidenti che quando sono stato nelle categorie giovanili io non c’erano nemmeno i 1000 metri altrimenti mi accorgevo prima che in realtà ero un ibrido).

Un giorno feci una staffetta 4X400 (non si usava nelle categorie giovanili, era una circostanza anomala) e correndo praticamente tutto il 400 al ritmo che riuscivo a fare tirando al massimo gli 80 metri mi resi conto che non ero proprio lento. Praticamente avevo corso i 400 metri più o meno come i velocisti che erano quelli che io ritenevo gli atleti “veri”.

Pietro Mennea è stato il più forte velocista italiano di tutti i tempi ma caratterialmente non era un velocista, era un resistente, per quello è diventato uno dei più forti velocisti della storia dell’atletica mondiale: era un velocista che si allenava con carichi di un mezzofondista. Sopportava carichi di allenamento pazzeschi, li sopportava fisicamente e aveva la pazienza di svolgerli.

Uno degli allenamenti che ricordo con più nostalgia dei miei tempi d’oro, di quando mi allenavo due volte al giorno, era quando mi facevo spesso trenta volte i 60 metri in 8″ alla mattina presto su un rettilineo in cemento a fianco di una scuola. Per trenta volte facevo finta di essere Pietro Mennea solo che lui in 8″  faceva 80 metri e non 60… ma a me quella velocità bastava per battere allo sprint finale la maggior parte degli ottocentisti del mio livello e quando perdevo era per colpa di deficit di resistenza, perché non ero riuscito ad arrivare con loro allo sprint finale. Io, che avevo già corso la maratona in 2 ore e 33′, (già in 2 ore e 46′ a diciotto anni) e che a tredici anni ero uno dei pochi a mettermi li a correre per 20 chilometri da solo, avevo dei problemi di resistenza, perché ero geneticamente un ibrido, non un resistente puro. Se avessi insistito di  più sulle doti di resistenza, probabilmente, più che fare notevoli risultati sulla maratona sarei saltato per aria, se avessi insistito ancora di più sulla velocità (che ho curato abbastanza) forse avrei fatto anche un discreto 48″ sui 400 ma in ogni caso come soggetto veloce avevo dei limiti oggettivi scritti dalla notte dei tempi.

Sono stato più velocista di Mennea nel troncare la carriera: Mennea ha tenuto per 20 anni ad un ottimo livello io ho avuto un periodo buono di soli 3-4 anni e per il resto comunque sono riuscito ad allenarmi come un atleta vero solo per 10 anni. Forse la differenza fra me e Mennea è che lui era un atleta vero ed io no. Io ho giocato a fare l’atleta vero per una decina d’anni e per 3-4 ho pure fatto finta di esserlo davvero. Il mio aspetto ibrido di soggetto anche resistente viene fuori adesso nel senso che dopo oltre 40 anni provo ancora a correre. Ma non mi è passato il rispetto esagerato per la velocità e ancora adesso dico che i master veri sono quelli che per vincere ci impiegano 100 metri e non quelli che vanno a camminare su cose lunghe anche 100 chilometri (ma siamo sicuri che facciano bene alla salute quelle cose lì?).

Forse io sono prevalentemente un resistente. Così come dicono che i veri meridionali sono quelli che puntano a nord, i veri resistenti sono quelli che puntano alla velocità. Il vero resistente non si fa problemi di resistenza perchè la resistenza ce l’ha dentro innata. Per il vero resistente qualsiasi competizione è comunque un fatto di velocità, un fatto di capacità di tenere un ritmo elevato perché sa che, bene o male, al traguardo sa arrivarci, se non  ci arriva è per la vergogna di arrivare in una posizione troppo arretrata ma non per limiti oggettivi.

Conosco un signore di 80 anni che fa il salto in alto da una quarantina d’anni. Di professione faceva il radiologo ma come radiologo è stato un velocista nel senso che appena ha potuto andare in pensione ha preso la palla al balzo e non ha insistito più di tanto. Nel salto in alto invece, che dovrebbe essere una disciplina dove la rapidità è fondamentale in quanto il momento dello stacco è certamente un momento da fibre bianche da forza esplosiva, con una componente elastica importantissima ma comunque forza che si produce in pochi istanti, ebbene, nel salto in alto è un resistente perché sta durando più che come radiologo. Non solo, sta cominciando a fare dei record’s nazionali che anni fa non faceva. Non so se come radiologo abbia dato il top verso fine carriera. Mi ricordo un anno che non era più giovanissimo che mi diagnosticò una microfrattura che altri non avevano visto che se non avesse scoperto mi avrebbe mandato dallo psichiatra perché comunque io sentivo un male cane e se non c’era nulla sul piede allora forse c’era qualcosa in testa, però francamente dire se fosse meglio come radiologo novizio o come radiologo stagionato non so dirlo. Come saltatore in alto sta migliorando adesso. Allora forse velocità e resistenza sono soprattutto caratteristiche mentali. Uno può essere veloce in certi ambiti e resistente in altri. A scuola sono stato un velocista. Un anno ero il migliore della classe, sono durato solo un anno, un bagliore. Ma anche lì era un discorso sbagliato. Per me “il migliore della classe” era un risultato sbagliato perché voleva dire che avevo perso tempo su materie che non mi interessavano che avrei potuto dedicare a materie che  mi interessavano di più. La scuola era già impostata allora come adesso: non c’era nulla sa scoprire, c’era poco  tempo da perdere su materie che volevi sviscerare in modo maniacale, dovevi comunque garantire un  rendimento minimo anche nelle cose delle quali non te ne fregava niente e pertanto era opportuno anche studiare tante cose che non si aveva voglia di studiare.

Nel mio settore ho trovato tanti velocisti: insegnanti che tengono corsi di ginnastica per la terza età per qualche anno e poi cambiano completamente settore. Ma anche lì penso che sia un fatto motivazionale: questi non è che non hanno entusiasmo ad insegnare ginnastica per la terza età ma sono del tutto demotivati a fare una professione che in Italia non esiste. Se tu in Italia dici che insegni attività motoria per la terza età ti chiedono “Ma, ha una palestra?” No, non ho una palestra. “Ma allora insegna a scuola?” No, non insegno a scuola, se insegnassi a scuola non  avrei tempo per insegnare alla terza età e teoricamente (teoricamente perché in pratica in Italia il secondo lavoro lo fanno tutti perché… esiste la disoccupazione) sarebbe un secondo lavoro. Insomma fai un lavoro che non esiste, manca solo che ti diano l’assegno di disoccupazione. La pensione non la vedrai mai come la maggior parte degli italiani ma il problema non è quello, il problema è che proprio non sanno cosa fai.

Ecco forse in Italia a lungo andare sono premiati i resistenti, se hai il coraggio di mantenere le tue posizioni per 40-50 anni forse, alla fine, un minimo di riconoscimento arriva. Come atleta sono stato un velocista, alla faccia che ero un resistente, mi sono bruciato giovane, come PTG tenterò di essere un resistente. Vuoi vedere che fra cinquant’anni mi fanno assessore al traffico e mi fanno dare una mano all’attività motoria dei cittadini come fa un vero assessore allo sport con il portafoglio? “Ma allora perché non punti a diventare direttamente assessore allo sport?” Perché un minimo di realismo ci vuole. In Italia i soldi per lo sport non ci saranno almeno fino al 2150. L’unica cosa che si può fare prima è riorganizzare l’assetto urbano delle città a favore dei pedoni. Quello, forse, in cinquant’anni ci si riesce, quasi una cosa da velocisti.