SEMPLICITA’ DELL’INFORMAZIONE PER ANDARE A BERSAGLIO

Già nel titolo c’è un’insidia per quanto voglio tentare di esporre con riferimento al processo di addestramento sportivo. In realtà non ritengo che l’importante sia “andare a bersaglio” quanto riuscire a far passare un certo tipo di informazione, poi deve essere l’atleta a far tesoro di questo e a decidere se questa informazione gli serve oppure no. Il “bersaglio” è una nostra costruzione mentale e per l’atleta può anche essere anche l’ultimo di una serie di obiettivi che forse l’atleta stesso non ha ben chiaro in testa e riesce a scoprire solo frequentando il campo sportivo dopo anni di pratica.

Se fate un sondaggio sugli atleti viene fuori che molti di loro in realtà non sanno nemmeno perché frequentano il campo sportivo e se in tenera età la tragica motivazione principale era “perché ce lo ha portato la mamma” qualche annetto più tardi la motivazione è così complessa che non la comprende nemmeno lui e per non sobbarcarsi l’onere di una pesante introspezione vi risponde ancora “Perché mi ci ha portato mia mamma…” quando è evidente che quella ormai non è più la motivazione base, oppure un generico “Per migliorare i risultati” che molte volte è la motivazione che crede di avere che viene subito smantellata dopo una prima sommaria autoanalisi.

Nel vecchio training autogeno c’era un limite: si proponeva questa tecnica psicologica per migliorare i risultati sportivi dell’atleta. Poi si scopriva, se questa tecnica era condotta bene, che il vero obiettivo dell’atleta non era migliorare i risultati sportivi per cui quel benedetto training autogeno non faceva bene per il miglioramento dei risultati ma faceva bene nel complesso per la salute dell’atleta. Forse è per questo che il vecchio “training autogeno”, che non era malaccio, è andato un po’ in disuso ed è stato sostituito dall’affiancamento di psicologi che danno un certo indirizzo al processo di autoanalisi. Insomma ogni approccio psicologico all’analisi dell’atleta tende ad essere minato da questa presunzione di miglioramento del rendimento sportivo che ne altera la qualità.

In materia io sono animato da strani convincimenti e sono in pieno disaccordo con la maggior parte dei miei colleghi.

Per esempio sono convinto che alla base del progetto di apprendimento sportivo non vi deva essere alcun… progetto perché è l’atleta che deve scoprire cosa vuole fare, cosa ha dentro e non l’allenatore che deve somministrare il suo progetto come se fosse un farmaco (molte volte purtroppo si arriva pure a quelli…) per giungere al miglior risultato sportivo.

In sintesi, per conto mio sul campo comanda l’atleta e non il tecnico. Il tecnico può solo umilmente decidere se continuare ad allenare quell’atleta o se gettare la spugna dichiarandosi inadeguato ma le modalità di evoluzione del processo di apprendimento sportivo in un rapporto tecnico atleta sincero e di buona qualità le determina l’atleta man mano che evolve la sua carriera sportiva. Molto spesso gli obiettivi dell’atleta non sono quelli del tecnico ed è lì che può consumarsi la frattura fra i due ma in ogni caso l’atleta potrà rivolgersi ad un altro tecnico o anche allenarsi da solo se è maggiorenne come previsto dalle norme di frequentazione del campo sportivo praticamente in tutta Italia.

In Italia è così e, almeno da un punto di vista teorico, bisogna ammettere che siamo svincolati dal metodo di conduzione del rapporto tecnico atleta di tipo sovietico che, alla faccia del fatto che l’URSS non esiste più, è rimasto il metodo principale nell’organizzazione dello sport di alto livello. In effetti mentre lo sport di alto livello nell’URSS era un’importante elemento di propaganda politica negli altri paesi quando non è questa mascherata da altre cose è comunque un fatto tremendamente importante perché muove flussi finanziari da capogiro, decisamente più consistenti di quelli che gravitano attorno allo sport di base.

Quando scrivo di “semplicità d’informazione per andare a bersaglio” pertanto non intendo per migliorare i risultati, bensì per costruire un autentico rapporto tecnico atleta dove il modello sovietico non sia a priori quello dominante ma solo una eventuale opzione nel momento in cui l’atleta voglia ad un certo punto immergersi nello sport di vertice con la chiara finalità di farne una professione.

L’informazione principale deve essere appunto che, almeno fino ad un certo punto, il campo sportivo non è un luogo simile all’ambiente di lavoro e alla scuola per come è impostata fino ad ora (l’auspicio che cambi nei suoi obiettivi non è solo mio ma di una buona moltitudine di soggetti purtroppo ancora stranamente silenziosi) ma un luogo di svago dove l’atleta può decisamente staccare dallo stress del lavoro e/o dello studio e condurre la pratica sportiva nel modo più gratificante possibile.

Un messaggio così è decisamente semplice, forse troppo semplice per una moltitudine di tecnici che essenzialmente si sentono a disposizione solo degli atleti molto motivati al risultato sportivo. Io ritengo che anche per questi tecnici forse sarebbe il caso di portare a galla in tempi brevi la vera motivazione alla pratica sportiva per non generare equivoci che possono portare poi ad una frattura del rapporto tecnico atleta.

Fra le altre cose curiose io ritengo che il tecnico impari di più dagli atleti che non hanno una grande propensione all’ottenimento di buoni risultati sportivi perché è solo in quel modo che si può scoprire se ci può essere una strada nuova che porta a questi. La favola dell’atleta che non gliene frega niente di tutto il resto ed è lì solo per lasciare un segno indelebile nella storia dello sport sarà anche una storia bella per lo sport e gratificante per il tecnico che segue questo atleta ma non aiuta il tecnico ad evolversi.

In realtà il tecnico impara di più dagli atleti scarsamente performanti e da quelli poco disposti all’ottenimento di ottimi risultati. Curiosamente ho scoperto come molto spesso le cose non vadano di pari passo, tutt’altro, e così, per uno strano gioco della Natura, ci troviamo ad aver a che fare con atleti molto talentuosi che non hanno questa gran voglia di migliorare i propri risultati oppure con atleti non molto performanti che però hanno una motivazione al miglioramento degna di un vero campione.

Io dico che in un rapporto autentico fra tecnico e atleta è più il primo ad imparare dal secondo e non viceversa. Può avvenire viceversa se l’obiettivo è tirare fuori un nuovo tecnico e non un atleta nel senso che l’allenatore può trasmettere una serie di informazioni per insegnare ad allenare, se ne ha esperienza, ma quanto al alle acquisizioni per diventare un buon atleta quelle sono sempre soggettive e quelle del tecnico quando era un atleta (se lo è stato) non sono certamente quelle del nuovo atleta, se non altro almeno perché è cambiato l’ambiente ed il panorama nel quale è inserito il nuovo atleta.

Un problema con il quale mi trovo a confrontarmi come tecnico è proprio il mio vissuto sportivo come atleta che rischia di minare il mio rapporto con gli allievi per una serie di presunzioni derivanti da questo vissuto. Nella pallavolo, dove mi sono trovato ad allenare senza aver avuto esperienza di atleta, ero libero da tali condizionamenti e, paradossalmente, mi trovavo ad avere da questo punto di vista una marcia in più rispetto ad altri tecnici. Nella pallavolo io ero l’allenatore ideale per gli atleti scarsi, riuscivo a costruire in loro le motivazioni per confrontarsi con gli altri e a farli divertire anche se il loro livello di partenza era basso. Scherzando, ma non troppo, gli altri tecnici dicevano che io per l’atleta scarso ero di conforto perché, pur se scarso, come giocatore era comunque molto meglio del suo allenatore che non sapeva nemmeno mandare la palla di là dalla rete.

Passava, in quello sport, quel messaggio molto semplice che deve passare in tutti gli sport: non sei qui per obbedire, per essere messo in riga, per giungere a tutti i costi ad uno stramaledetto risultato sportivo ma sei quei per divertirti. Il rendimento è già più che sufficiente perché sei già meglio del tuo allenatore che è lì ad emettere sentenze per tentare di farti migliorare. Fin che ti diverti abbi pietà anche per il tuo allenatore e cerca le parole per farlo evolvere come tecnico altrimenti, oltre che come atleta, resterà scarso anche come tecnico.