PSICOLOGIA DELLO SPORT CHE NON SI FA

Con l’articolo sulla capacità di differimento sono andato a trattare un complesso argomento di psicologia dello sport. Sono un po’ contraddittorio perché tratto poco la psicologia dello sport anche nei suoi argomenti più semplici e scontati e sono andato a scomodarla in un ambito invece piuttosto insondato e raramente analizzato.

Tratto poco la psicologia dello sport perché sono un “ruspante” del movimento e non sono troppo attento ai problemi fini di chi già pratica attività motoria con assiduità come dilettante o addirittura come professionista, per conto mio quei soggetti sono già “salvi” da un punto di vista dell’attività sportiva e semmai hanno problemi di tipo opposto, soprattutto nel caso dei professionisti nel senso che devono frenare le spinte dell’ambiente a chiedere risultati sportivi sempre più eccezionali a loro. Lo stesso ambiente che non si scandalizza se un ragazzo di quindici anni molla la pratica sportiva perché ha troppo da studiare è quello che mette sotto pressione l’atleta di alto livello perché riesca a fare i 240 chilometri del campionato del mondo di ciclismo ai 42 chilometri all’ora invece che ai 40 perché se andate ai 40 “Ci prendete in giro, anche i dilettanti tengono quel ritmo, allora fate uno sprint di due chilometri e bella finita invece che tenerci sei ore davanti alla tv a vedere che andate in gita…”.

La psicologia dello sport è molto concentrata a capire i perché dell’atleta di alto livello che pur essendo in  grado di vincere non vince per blocchi psicologici. E non tratta cose astratte ma concrete e anche abbastanza diffuse perché è proprio vero che molti atleti di alto livello che hanno le potenzialità fisiche per vincere competizioni importanti non ce la fanno solo perché hanno dei blocchi psicologici che frenano il loro rendimento soprattutto nelle circostanze agonistiche più importanti. Che la psicologia dello sport esista per questi è normalissimo, costa una fortuna “costruire” un campione, se questo poi non “funziona” perché ha delle tare psicologiche del tutto personali si spendono due soldini per ingaggiare lo psicologo che prova a capire, dal suo punto di vista, cos’è che non va. Ovvio.

I due soldini che non si spendono mai sono quelli per ingaggiare lo psicologo per quel ragazzo che a quindici  anni molla improvvisamente l’attività sportiva, sano come un pesce e assolutamente esente da ogni impedimento alla pratica sportiva solo perché “Ha troppo da studiare e non ce la fa più a conciliare attività sportiva e scuola”. Mi pare di sentire quel pensionato che non ha più tempo per mangiare perché ha troppo da dormire e non ce la fa più a conciliare sonno con alimentazione: quello è alla fine dell’esistenza e bisogna dargli una scossa per farlo venire a tavola se non si vuole che muoia in pochi giorni. Lo studente che non ce la fa più a conciliare sport e scuola è un vecchio precoce che ha assolutamente bisogno di una strigliata se non si vuole che getti le basi per un invecchiamento anticipato che certamente potrà portarlo, vista la forma mentis, a lasciarsi morire settant’anni più tardi perché non ha più tempo per mangiare, anche senza nessun Alzheimer in corso.

Non si chiama lo psicologo per l’anziano che non si alza più dal letto, si dice che ha l’Alzheimer o, al più che è depresso ma per il giovane che molla la pratica sportiva a quindici anni occorrerebbe proprio lo psicologo.

In realtà il problema più che di quel ragazzo è proprio della società intera e quel ragazzo può benissimo dirti che lui non ha bisogno dello psicologo, il suo atteggiamento è assolutamente razionale, addirittura ritenuto maturo e coscienzioso da parte di molti adulti (a volte perfino i genitori…) e che ci sono molti suoi coetanei che si comportano come lui, semmai sono da indirizzare dallo psicologo quei quattro deficienti che nonostante non ottengano risultati sportivi di buon livello continuano ad ostinarsi a praticare sport tutti giorni creandosi seri problemi di organizzazione nello studio.

Lo psicologo non occorre per i ragazzi, occorre per chi progetta la loro vita. Ed allora la psicologia dello sport che io vorrei affrontare qui sopra più che quella che studia come liberare il campione in tutta la sua potenzialità è quella che studia lo sport che “non si fa”, quella che studia le cause sociali per cui un ragazzo che smette di fare attività sportiva a quindici anni è considerato un ragazzo maturo e responsabile. Della salute non gliene frega niente a nessuno, smettiamola di dire che stiamo considerando attentamente la prevenzione per riuscire a contenere il bilancio della spesa sanitaria, non è vero.

E’ un problema degli adulti non dei ragazzi, di quegli stessi adulti che poi davanti al teleschermo si lamentano se il campione procede ai 40 chilometri all’ora invece che ai 42 e che si indignano quando uno di quegli eroi viene scoperto positivo all’antidoping, perché questo è ciò che chiedono i “telespettatori”, non lo sport essenziale di chi deve costruirsi la salute.

Bisognerebbe sviluppare una psicologia dell’abbandono dello sport e scopriremmo che le cause sociali sono numerose e complesse ma non impossibili da rimuovere. Quando ho trattato della capacità di differimento ho portato in campo un argomento complesso che può riguardare anche il campione ma riguarda soprattutto la gente comune. Capacità di differimento vuol dire fare un azione oggi che non ha evidente significato nell’immediato perchè si ha ragione di pensare che possa avere invece un grande significato in relazione all’accadimento di eventi futuri di una certa importanza. In una scala di valori ipotetica il campione che procede ai 40 chilometri all’ora nel campionato del mondo trasmesso per televisione per me vale uno e la continuazione della pratica sportiva da parte del ragazzo che a quindici anni voleva già mollare tutto vale dieci. E’ certo che il campione lo vede tutto il mondo mentre il ragazzo che rischia di prendere cinque in matematica non lo vede nessuno, anzi lo vedono i suoi genitori che piuttosto di patire l’incubo di un figlio che diventa “asino” sono disposti a sopportare il rischio che diventi vecchio prima del tempo, molto spesso confondendo “maturità” con “vecchiaia”.

Le critiche sterili come sempre non servono a nulla, facendo proposte concrete io dico che se riusciamo a condurre una bella e capillare battaglia contro gli schermi (telefonino, tablet, computer e televisione) si trova il tempo per conciliare scuola e sport. Il ragazzo continua a fare sport, non prende cinque in matematica, la società ci guadagna in salute ed i genitori sono salvati dall’incubo di avere un figlio asino. Soprattutto si creano le condizioni per una scuola più umana che non emargina chi si ostina a fare sport anche quando non è più un bambino.