PERCHE’ DELLA SUPERCOMPENSAZIONE NON GLIENE FREGA PIU’ NIENTE A NESSUNO

Non è perché il principio della supercompensazione, o legge di Weigert, ha circa 150 anni o poco meno ma perché con l’uso sistematico dei farmaci di quella legge si può pure farsene un baffo che tanto con i farmaci andiamo ad alterare il recupero quasi a nostro piacimento, come minimo riusciamo a porre rimedio ad errori che un rigoroso rispetto della legge di Weigert potrebbe averci aiutato a non commettere.

Quando dico che alcuni record’s non sono più stati ritoccati per colpa della diffusione del doping sistematico non mi crede nessuno. Sono tutti pronti ad affermare il contrario, che semmai è proprio perché non ci si dopa più come una volta che non si riescono ad ottenere certi risultati. Ma il doping è andato avanti, si è decisamente evoluto, è diventato un fatto sistematico e non occasionale e, a livello di atleti professionisti riesce a sfuggire ai controlli molto meglio di quanto non riuscisse a sfuggire una volta perché si è evoluto più velocemente dei controlli antidoping.

La diffusione del doping sistematico che una volta era fatto di solo alcuni paesi ha subito una globalizzazione e con la pubblicizzazione delle campagne antidoping a “tolleranza zero” ha potuto diffondersi capillarmente in tutto il mondo sportivo senza trovare grandi resistenze. Da un lato si è sviluppato il doping sistematico che non si chiama più doping ma “supporto farmacologico per il controllo dei parametri bioumorali dell’atleta” dall’altro si sono intensificati i controlli per bloccare chi si diletta nel doping “fai da te”, una ristretta elitè di atleti che non hanno capito che ci si può dopare solo in un certo modo altrimenti ti danno l’ergastolo e ti dicono che sei dopato.

Questa diffusione, capillare e catastrofica per certi versi, ha prodotto delle aberrazioni nell’evoluzione della teoria e metodologia dell’allenamento sportivo e così, per esempio, la vecchia legge della supercompensazione può anche essere ignorata perché non fa i conti con nuove evenienze, non fa i conti con nuovi scenari della preparazione che 150 anni fa non potevano essere neanche lontanamente immaginabili.

Premesso che a me fastidio (ma questa è una questione prettamente personale) che vengano spesi soldi pubblici (quelli dell’antidoping) per fermare quattro deficienti che si dopano con i sistemi di 40 anni fa e per far credere all’opinione pubblica che nello sport di alto livello non si usano farmaci per incrementare il livello delle prestazioni sportive, vorrei soffermarmi ora più che sulla convinzione che tutto ciò abbia prodotto uno scadimento delle tecniche allenanti con peggioramento delle prestazioni in certi sport, sul fatto che questo modo di operare sia riuscito a contagiare anche il mondo di chi non usa i farmaci, di chi fa sport solo per il gusto di migliorare e per vedere dove può arrivare senza farmaci (anche se sotto, sotto, la tentazione del grande salto per tuffarsi in quello che dai più viene definito lo sport “vero” c’è più o meno in tutti gli sportivi di età compresa fra i 18 ed i 25 anni circa).

Se uno non usa farmaci il principio della supercompensazione resta valido ed importante anche se ha 150 anni, anche se è molto difficile da applicare ed è forse questo il vero motivo per cui sta andando nell’oblio. In fin dei conti gli atleti che possono contare su un’assistenza medica all’avanguardia sono solo poche migliaia, gli altri non possono permettersi di affrontare certi discorsi e, per fortuna, di pazzi scatenati che fanno gli esperimenti con le medicine (quasi sempre vietate, perché, alla fine almeno a qualcosa l’antidoping serve…) ce ne sono meno di quanto si possa pensare anche se i pochi “positivi” provengono più o meno tutti da questo mondo di diseredati.

Il principio della supercompensazione è difficilissimo da applicare perché intanto non sappiamo i tempi del mitico grafico. Il grafico è inutile fare disegni per spiegare come è fatto, è semplicissimo. Ad una fase di carico (lo stimolo allenante) segue immediatamente una fase che dura abbastanza poco di affaticamento che è direttamente conseguente a questo carico. E’ una fase che può durare minuti, al limite poche ore, nella sua fase “acuta” non può durare più di qualche giorno, certamente non mesi. Poi c’è una fase di lento ripristino delle condizioni preesistenti allo stimolo, il cosiddetto recupero e quello può durare ore (difficile dire minuti, anche se relativamente ad alcune fasi si ha ragione di dire che i primi secondi sono i più significativi, tanto è vero che quando andiamo a studiare per esempio variazioni della frequenza cardica ci limitiamo a fare osservazioni che durano pochi secondi), giorni o mesi. Subito dopo questo recupero si verifica la mitica supercompensazione che dura relativamente poco nel senso che può durare per un tempo che è abbastanza più breve di quello che è stato necessario per recuperare il carico. Qui siamo già nella nebbia, perché il recupero in certe situazioni può durare anche un anno e pertanto possiamo ben sperare che la supercompensazione, per poco che duri, duri almeno uno o due mesetti. Questo per certi carichi particolari perché per altri parliamo invece di ore e pertanto se il recupero è durato per esempio quarantotto ore c’è poco da sperare che la supercompensazione ne duri altre quarantotto. O carichi entro poche ore dalla concretizzazione di quella supercompensazione oppure ti trovi a caricare già in una fase discendente e pertanto non hai ottimizzato il momento ideale per il carico successivo.

Come si può pensare che una supercompensazione che normalmente può verificarsi in uno o due giorni, in altre situazioni ci possa impiegare addirittura un anno per concretizzarsi? Per lo stesso motivo che ci troviamo in difficoltà oltre che per definire i tempi di realizzazione di questo fenomeno anche per definire le intensità di carico per le quali questi adattamenti si possono realizzare. E così, facendo un esempio limite, per un atleta di livello mondiale non siamo ancora riusciti a capire se fare un record del mondo sulla maratona un certo anno sia fattore predisponente per poterne fare uno ancora migliore l’anno dopo o invece sia semplicemente una cartuccia sparata che non si potrà più sparare. In sintesi non siamo riusciti a capire se certi carichi limite dopo tempi biblici (anche un anno nel caso di una maratona da record del mondo) possano offrire una sorta di supercompensazione o se in occasione di questi super carichi quel principio proprio non funzioni e si abbia invece, come ipotizzato da alcuni, un danno della struttura.

E’ chiaro che quando abbiamo a che fare con atleti che valgono un patrimonio invece di fare speculazioni pseudo filosofiche ed esperimenti ci serviamo della farmacologia per salvare l’atleta e questo atteggiamento non può essere certamente perseguito come deplorevole. Si tratta di non prendersi in giro e ammettere che della supercompensazione, quando c’è il rischio che l’atleta abbia tempi di ripresa troppo lunghi non ce ne frega più nulla. La medicina offre garanzie che vanno ben al di là dei misteri della supercompensazione.

Dunque il grafico della supercompensazione è semplice. Forse qualche dubbio c’è sulla lunghezza della fase di rientro alla situazione normale. Qualcuno afferma che questa si verifica abbastanza in fretta e pertanto c’è poco tempo per dare il nuovo stimolo allenante. Qualcun altro afferma che anche se è vero che il momento migliore è un momento che dura piuttosto poco poi in realtà c’è una fase abbastanza lunga per poter dare un nuovo stimolo che sia ancora utile.

A tal proposito posso portare una mia esperienza personale. Quando si diceva che il carico ideale andava somministrato circa 48 ore dopo (è una cosa che si dice molto ancora adesso, nelle palestre, con riferimento al recupero muscolare di certe sedute con i pesi) c’erano dei podisti che si allenavano abbastanza poco, improvvisando e con uno schema di allenamento che più o meno era il seguente: gran carico alla domenica (gara), tre o quattro allenamenti alla settimana non molto intensi (molto più tranquilli della gara) e nuovo carico molto intenso la domenica successiva (altra gara). Praticamente questi supercompensavano ogni 168 ore, altro che 48 ore. Non so se fosse la preparazione migliore, io so solo che c’erano atleti, nemmeno troppo impegnati, che con tali metodiche arrivavano a correre la corsetta su strada della domenica su distanze di 14-15 chilometri più o meno a 3’20” per chilometro. Erano atleti che quando andavano a correre l’ora in pista (allora molto di moda) spesso superavano i 18 chilometri. Erano atleti che, anche se non gareggiavano spesso in pista, valevano 32′ sui 10.000 metri o poco più e se correvano una maratona (che non era ancora di moda) erano in grado di correrla in meno di due ore mezza. Supercompensando una volta alla settimana. Non esisteva l’epo e gli aminoacidi erano una parolaccia. Se parlavi di aminoacidi a questi personaggi potevano dirti che loro le porcherie le lasciavano a chi faceva due allenamenti al giorno. Evidentemente c’era una cultura dell’allenamento un po’ diversa da quella di adesso.

Il principio della supercompensazione, anche se molti non sapevano cosa fosse, era comunque rispettato perché si sapeva benissimo che in caso di intossicazione nessun santo ti avrebbe salvato. Al giorno d’oggi a volte pare che l’allenamento sia più importante della gara. Se certi atleti superassistiti non hanno problemi a recuperare perché hanno nuove strategie, i comuni mortali pare che siano a scimmiottare quegli atleti come se anche loro avessero l’asso nella manica per recuperare allenamenti un po’ troppo pesanti. Invece l’asso nella manica non ce l’hanno perché al di là di qualche integratore, che fa bene solo alla tasca di chi lo vende, in realtà il supporto farmacologico ce l’hanno solo i professionisti e così il dilettante-tapascione si trova con l’organismo intossicato, con l’integratore che non fa i miracoli e con i risultati che stentano a migliorare perché se l’organismo è intossicato la supercompensazione fa fatica a verificarsi e altera di molto i suoi tempi di realizzazione.

La colpa non è dell’integratore la colpa è della distribuzione dei carichi di allenamento e delle intensità. Per cui studiare la supercompensazione non è il metodo infallibile per centrare i giusti carichi di allenamento ma è un pretesto per non cercare nell’integrazione alimentare il rimedio ad errori che sono stati commessi in allenamento e non a tavola. Se sei ingolfato di chilometri la via più breve per risolvere il problema è ridurre il numero di chilometri e/o distribuirli diversamente nelle sedute di allenamento. Se la corsa sta scadendo di qualità ed invece di correre meglio stai correndo peggio di qualche mese prima il problema, più che nell’integratore, probabilmente è nella tipologia delle esercitazioni adottate in allenamento e forse anche nell’intensità delle stesse. Non sempre elevata intensità è sinonimo di ottimizzazione del carico. Molto spesso le elevate intensità di corsa portano a correre male e anzi, quando si fanno esercitazioni sulla tecnica di corsa si invita l’atleta a correre ad intensità alle quali possa controllare la corsa ed avere un ritorno di sensazioni piuttosto preciso e non offuscato da grandi picchi di fatica.

La supercompensazione anche se è stata teorizzata oltre 150 anni fa è molto attuale e anche se tutti i discorsi relativi al suo studio sono molto complessi non è tempo perso considerarla con attenzione. Purtroppo non è di moda perché non fa vendere nulla ed è per quello che se ne parla poco. E’ molto più facile dire che il sovraccarico è un peccato veniale che si risolve in farmacia. Anche se il sovraccarico è una cretinata che l’atleta un po’ esperto deve avere i numeri per evitare e anche se l’atleta che fa sport in modo sistematico ed impegnato deve essere uno che la farmacia non si ricorda più nemmeno dove sta. Ma questo su che pubblicità lo leggete?