LO SPORT DI MEZZO, QUELLO VERO

Molti mi chiedono che concetto ho io di sport visto che critico sia quello di vertice, che chiamo con fare sprezzante “televisivo” che quello di base che troppe volte definisco “superficiale” e “annacquato”.

E’ un argomento sul quale potrei dilungarmi in modo insopportabile e devo tentare di dare dei flash più immediati possibile che tentino di rispecchiare le mie idee.

Con una prima definizione un po’ maldestra, direi che lo sport autentico a mio parere è quello nel quale “Tutti ci provano davvero, in modo convinto, ma nessuno ci prova con i farmaci”. Al di là della questione doping, troppo complessa anche per essere affrontata su un sito simile perché alla fine è una questione politica, io sono per uno sport senza farmaci, o meglio uno sport che ci riesca a far consumare meno farmaci possibile, mediamente meno di quelli che consuma la popolazione che non fa sport o che lo pratica in modo discontinuo e superficiale.

Altra definizione maldestra ma che rispecchia abbastanza bene il mio pensiero è quella riferita all’età. A mio parere lo sport autentico è quello che comincia verso i 13-14 anni derivando dal gioco che deve essere stato bello e abbondante fino a quell’età, raggiunge un picco di impegno verso i 25-30 anni, cioè nell’età del massimo rendimento, e poi non te lo cavi più per tutta la vita nel senso che comincia a rallentare pian piano ma non dovresti mollarlo completamente nemmeno quando sei in sedia a rotelle, altrimenti il fisico va a rotoli precocemente.

Entrambe le definizioni si scontrano contro la nostra realtà sociale. Per quanto riguarda il tipo di impegno esiste uno sport di vertice dove circolano un sacco di soldi ed il ricorso al professionismo e a tutte le tecniche per esasperare il rendimento è normalmente accettato e poi esiste uno sport di base dove non è assolutamente previsto di ottimizzare il rendimento studiando la preparazione nei dettagli e accontentandosi di stare su livelli prestativi molto distanti dallo sport di alto livello.

Per quanto riguarda l’età ci si scontra contro un tessuto sociale semplicemente patologico che costringe ad una competizione sul lavoro ma addirittura scolastica che toglie ogni spazio a qualsiasi altro tipo di competizione. Praticamente nel terzo millennio siamo così impegnati nella lotta per la sopravvivenza che non abbiamo tempo libero per lo sport vero. Ne abbiamo tempo solo se questo sport può diventare una professione e pertanto diventa l’elemento stesso in grado di risolverci i problemi esistenziali.

Non c’è dubbio, nella nostra società lo sport vero è ancora un lusso per pochi. Per i comuni mortali resta solo lo sport professionistico, ben pagato, oppure lo sport annacquato corroborato da consistenti dosi di sport televisivo che non si chiama sport ma sedentarietà perché guardare la televisione è la cosa più sedentaria che ci sia. Purtroppo siamo nell’era dove si chiamano “sportivi” anche quelli che guardano lo sport alla tv.

E così, nella nostra società si ha tempo per fare sport fra i 13 ed i 16 anni, salvo che se a 16 anni sei molto bravo ti rompono già le scatole perché potresti diventare un numero uno e pertanto è giusto che ti impegni a fondo, oppure ti rompono le scatole se non sei particolarmente bravo perché a sedici anni devi cominciare a pensare un po’ di più alla scuola invece di perdere tanto tempo con lo sport (e questa è pura follia). Fra i 18 anni ed i 30-35, quando uno dovrebbe davvero spaccare tutto e offrire rendimenti che i supereroi della tv hanno poco da fare gli eroi perché se ti applichi vai abbastanza vicino alle loro prestazioni anche senza farmaci visto che l’evoluzione delle tecniche di allenamento è stata pressoché nulla, invece si concretizza il bucone perché nell’età del massimo rendimento c’è ben poca gente che riesce a dedicare allo sport il tempo che in un paese civile dovrebbe essere possibile dedicare.

A seguito di questa situazione vi sono delle fasce d’età dove l’agonismo è un po’ esasperato e altre dove, se non è ancora più esasperato è addirittura assente.

Mi spiego perché la faccenda si complica. Già verso i 16 anni si comincia ad assistere a cose strane. C’è il sedicenne un po’ troppo avanti che offre risultati di livello assoluto come se fosse già un diciottenne o addirittura un ventenne e quelli che si impegnano già meno di quando avevano 13-14 anni, praticamente quando avevano appena iniziato. Poi si verifica il buco clamoroso e così abbiamo ventenni che puntano decisamente allo sport di vertice ed altri che hanno già smesso decisamente perché “…Tanto un professionista non lo diventerò mai…” e questa è la cosa veramente inaccettabile e a seguito di questa follia siamo capaci di ritrovarci, vent’anni più tardi, alla soglia dei quarant’anni, soggetti che fanno sport con il piglio di un ventenne ed un ardore agonistico perfino esagerato per il semplice motivo che lo sport a vent’anni proprio non l’hanno praticato e pertanto provano e ricostruire a 40 anni ciò che non hanno vissuto a 20.

Dietro a questi atteggiamenti non ci sono solo questioni di moda ma vere e proprie motivazioni sociali. Il quarantenne che è già vent’anni che si sta ammazzando di lavoro si rende conto che se non vorrà finire al manicomio o vittima di un infarto deve un po’ diluire i ritmi del lavoro e così si reinnamora dello sport anche se sono passate un po’ troppe primavere per far le cose sul serio.

E’ inevitabile, in un contesto simile, che a 25 anni esista l’eroe, che è quello che ne fa di cotte e di crude per restare nello sport professionistico e la mezza calzetta che è quello che gli allenamenti del grande atleta proprio se li sogna e non ci prova nemmeno a confrontarsi con lui.

Il buon senso dovrebbe suggerire la via di mezzo e così come c’è un certo numero di temerari che fra i 20 ed i 30 anni sparano tutte ma proprio tutte le proprie cartucce per offrire il massimo nello sport (e qualcuno ne spara addirittura di più di quelle che sarebbe lecito sparare…) dovrebbe esserci un alto numero di atleti, magari ben superiore al precedente, che senza ambire al vertice puntano a fare sport in modo più che dignitoso e sottraendo buona parte dello spettacolo allo sport professionistico perché, diciamocela tutta, anche da un punto di vista della trasparenza, lo sport dei numeri due è molto più attendibile dello sport dei numeri uno. Invece lo sport dei numeri due non è messo in scena,  è praticamente inesistente e, se esiste, non ha certamente quel seguito di pubblico (che è tipicamente televisivo) che caratterizza lo sport di alto livello.

Si segue la legge del “tutto o niente” in un ambito dove “molto” sarebbe decisamente più salutare sia di “tutto” e ancor più di “niente”. Evidentemente, più che di sponsor c’è bisogno di buon senso e di vera cultura sportiva. Qui la cultura dominante, non è la prima volta che lo sottolineo, è quella della televisione.