LA COMPETIZIONE E’ UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO

Senza competizione c’è noia ed apatia ma con troppa competizione c’è ansia e stress, evidentemente la competizione è un po’ come il sale, è importante ma non è che più ce ne metti e meglio è, si tratta di dosarlo con precisione e buon senso.

Ovviamente la competizione non c’è solo nello sport e una gran bella cosa dello sport sarebbe che ci insegnasse a disciplinarla anche nella vita. L’eccesso di competizione nello sport non ci permette di vivere con serenità la pratica sportiva ma l’eccesso di competizione nella vita è semplicemente devastante e sconquassa il mondo del lavoro e pure la scuola che forse farebbe bene ad abbandonare l’istituto della valutazione per diventare un po’ più efficace e sopportabile.

Nella vita la competizione è onnipresente dalla nascita praticamente fino a poco prima della morte, in certi casi quasi fino agli ultimi istanti. Nello sport è fluttuante e tende ad essere distribuita in modo un po’ strano nelle varie età e nelle varie situazioni.

La maggior parte dei bambini sono ipercompetitivi, lo sono in qualsiasi gioco, figuriamoci nello sport. Nell’età adolescenziale la competitività dello sport può assumere diversi aspetti e spaziare da un livello molto elevato, più ancora di quello già alto dei bambini a livelli già pericolosamente bassi soprattutto quando la scuola arriva a soffocare la competizione sportiva imponendosi come unico ambiente veramente competitivo. Un esageratamente basso livello di competitività nello sport nell’età adolescenziale è doppiamente pericoloso. In primo luogo perché rischia di togliere fascino allo sport relegandolo ad attività del tutto marginale e quasi ininfluente nel vissuto emotivo del ragazzo e poi perché, in conseguenza di ciò, la scuola può assumere un’importanza abnorme diventando fonte di stress e di situazioni ansiogene che si ripetono senza soluzione di continuità.

Tale andamento del tasso di competitività si divarica sempre più verso molteplici forme andando avanti con l’età e assume la massima possibilità di diversificazione proprio nell’età del massimo rendimento sportivo quella compresa fra i 20 ed i 30 anni circa dove si va dal ragazzo che si comporta quasi come un atleta delle categorie amatoriali con un interesse per l’agonismo tendente allo zero al giovane superimpegnato dello sport che fa di questo una vera e propria professione e sapendo che questa non potrà durare tutta la vita fa di tutto per ottimizzarla al meglio e poter ottenere il massimo in termini di risultati agonistici e dunque anche di rimborsi spese e premi riuscendo talvolta a mettere da parte delle vere e proprie fortune.

Le categorie amatoriali vere e proprie che iniziano dai 35, 40 anni circa a seconda della longevità sportiva del soggetto presentano anch’esse una discreta variabilità di vissuto agonistico e qui la faccenda tende ad invertirsi curiosamente nel senso che i più competitivi sono proprio quelli che non hanno praticato sport da giovani o che hanno fatto finta di praticarlo pensando solo alla scuola e al buon inserimento nel mondo del lavoro. Tali soggetti appena assestati nella professione tendono a scatenarsi nello sport per rifarsi delle occasioni perdute cercando talvolta anche degli approcci poco fisiologici e razionali alla pratica sportiva amatoriale.

Al contrario gli ex agonisti tendono ad avere un approccio molto morbido con la pratica sportiva amatoriale e talvolta evitano del tutto la competizione accontentandosi di un’attività fisica di tipo salutistico svincolata da ogni aspetto competitivo.

Verrebbe da dire che siano i casi della vita a diversificare molto l’atteggiamento più o meno esasperato nei confronti della competizione sportiva dal momento che da bambini più o meno tutti sono mossi da un forte spirito competitivo mentre praticamente nessuno subisce tale competitività in modo drammatico. Evidentemente sono proprio i bambini i veri professionisti dello sport, quelli che istintivamente riescono a modulare un buon grado di competitività abbastanza continuo ma mai troppo esasperante. Poi, a fianco di un certo numero di soggetti che continuano a vivere la pratica sportiva con un certo equilibrio ne esistono molti che esagerano in un senso o nell’altro o attratti dalle sirene del professionismo nello sport o al contrario distratti in modo irrimediabile da un’attività professionale (o anche dalla scuola) che non lascia spazio per altre cose.

Sarebbe utile proprio a tutte le età riuscire a trovare il giusto grado di competitività per rendere l’attività sportiva divertente e funzionale come deve essere per poter esplicare i suoi benefici sulla salute. Tale compito ci aiuterebbe anche a disciplinare e contenere la competitività nelle altre questioni della vita dove un eccesso di competitività sta caratterizzando un po’ troppo i nostri tempi. Il mio motto di trasferire la competitività dai banchi di scuola ai campi sportivi purtroppo funziona bene anche in ambito lavorativo. L’ambiente di lavoro è ipercompetitivo sullo stile di quello della scuola e vive su una grande menzogna che purtroppo esplica i suoi effetti come una grande realtà: lo spettro della disoccupazione che in una società meno artificiale non dovrebbe proprio esistere. Di lavoro ce n’è decisamente per tutti se è vero che la maggior parte di noi lavora anche ampiamente più delle canoniche otto ore al giorno che nell’era del computer dovrebbero essere diventate cinque o sei. Semplicemente è mal distribuito ad arte per poter contenere al minimo i salari con l’obiettivo di ingigantire i profitti di chi orchestra questo mondo del lavoro irrazionale.

Una società giustamente competitiva è una società dove la competizione vera si esaspera in modo giocoso sui campi sportivi ma poi è controllata con buon senso in tutti gli ambiti per poter garantire un’ esistenza dignitosa e serena. L’aberrazione della competitività nella vita quotidiana è la guerra che fa bene a chi la comanda ma male a chi la combatte e la subisce.