I DUE PROBLEMI DI CHI CORRE

Essenzialmente chi corre ha due problemi. O meglio, di problemi mediamente ne ha molti di più altrimenti tutti, ma proprio tutti, correrebbero ma, con riferimento alla corsa, bisogna dire che ne ha anche due che gli altri non hanno. Il primo è il problema di andare veloce, il secondo è il problema di non fare fatica.

Se dividiamo il mondo di chi corre in tre grandi categorie scopriamo che i due problemi sono affrontati in modo diverso dalle varie tipologie di corridori. I velocisti hanno essenzialmente il problema di correre veloce. Non esiste velocista che non corra veloce, se non corre veloce non è nemmeno un velocista e se è davvero veloce non ha nemmeno bisogno di correre tanto per vincere perché vince subito, dopo pochi metri e pertanto anche i 100 metri saranno sufficienti per esplicare queste doti di velocità. Anzi, il vero velocista è proprio il centometrista. A seconda del tipo di corsa nella velocità esistono anche le gare dei 200 e dei 400 metri che sono un po’ più lunghe ma fanno indubbiamente parte ancora del regno della velocità. Dall’altra parte del mondo dei corridori ci sono quelli delle lunghe distanze. Le distanze lunghe del fondo sono veramente lunghe e si chiamano così quelle che vanno dai 10.000 metri (unica distanza veramente lunga praticata normalmente in pista) ai 42 chilometri della maratona che va corsa su strada.

In questo tipo di corse è molto importante fare poca fatica per il semplice motivo che se uno fa tanta fatica non arriva in fondo. Impossibile correre 42 chilometri facendo tanta fatica subito fin dai primi metri. Quella tanta fatica iniziale con il trascorrere dei chilometri si trasforma in un supplizio, una cosa non sopportabile,

Poi esistono i corridori del cosiddetto “mezzofondo” che sarebbero quegli ibridi che non si capisce se sono più veloci o più resistenti. siccome le distanze usuali del mezzofondo sono tre, 800, 1500 e 5000 metri, si tende a dire che l’ottocentista è un mezzofondista veloce, che il cinquemilametrista è un mezzofondista resistente e che il millecinquecentista è proprio il classico ibrido.

Di questi personaggi, a seconda dei gusti, si può dire che hanno entrambi i problemi del podista nel senso che devono saper correre veloce ma anche saper fare poca fatica oppure, girando la frittata, si può anche dire che non è necessario che sappiano correre proprio veloce così come non è necessario che siano dei maestri nel risparmiare fatica.

E’ pressoché certo che il problema della “non fatica” assilla poco il velocista nel senso che il velocista anche se corre al 100% difficilmente si lamenterà di aver fatto troppa fatica. Per lui il problema è unicamente correre più veloce e pertanto metterà a punto quelle strategie di allenamento atte a correre più veloce possibile. Al contrario man mano che si sale con la distanza il problema della “non fatica” sarà sempre più importante e già molti ottocentisti si possono lamentare della fatica in modo considerevole per non parlare del corridore di distanze veramente lunghe che se non riesce ad impostare un certo rapporto con la fatica è costretto a cambiare disciplina sportiva.

L’ho chiamata “non fatica” con una definizione che riporta alla storiella dell’elefante rosa.

E’ difficile dire ad un atleta “Vedi di non sentire la fatica” perché nel momento in cui gliene accenni l’ha già immaginata. In questo senso è come la storia dell’elefante rosa. Se dici ad un soggetto “Non pensare ad un elefante rosa” questo ti tradisce subito, anche senza volerlo. Siamo fatti così. E’ istintivo. Addirittura se uno ti dice di non pensare ad un elefante rosa con i pallini neri non riusciamo ad ascoltarlo nemmeno in quel monito che sembrerebbe talmente facile da eseguire. Abbiamo delle categorie mentali e con il linguaggio ne creiamo sempre di nuove.

Allora, con riguardo alla fatica, non possiamo fare a meno di sentirla ma l’arma che abbiamo a disposizione è che per non sentirla, o per sentirla meno, possiamo anche tentare di sentire la “Non fatica”. Sentire la “non fatica” non è per niente un giochino facile, bisogna concentrarsi molto per sentirla e anche se è difficile è comunque possibile sentirla, così come per il velocista è possibile, con l’allenamento imparare a correre sempre più veloce. Situazione paradossale, il risultato finale del sentire la “non fatica” è che in quel modo, alla lunga, impariamo a correre più veloce nelle distanze lunghe. Al paradosso, dopo questa ulteriore speculazione, potremmo affermare che siamo tutti dei velocisti, anche chi corre la maratona o i 100 chilometri perché alla fine, pur seguendo strade diverse. puntiamo tutti a correre più veloce.

Questa cosa, in realtà, è vera solo per chi pratica attività agonistica che sia di velocità o sia di resistenza ci porta sempre istintivamente a correre sempre più veloce. Chi corre per la salute, senza fare competizioni può essere portato anche a disinteressarsi in modo assoluto al ritmo della corsa finendo per ragionare solo attorno alle sensazioni di benessere della corsa.

Curioso, a volte finisce per fare meno fatica in certi tipi di corsa proprio chi pratica attività agonistica rispetto al soggetto che non fa gare, per il semplice motivo che quest’ultimo soggetto, non ponendosi il problema della fatica non si allena a trattarla.

Altro paradosso, l’atleta che specula continuamente attorno ai fenomeni di adattamento per migliorare la velocità e/o sentire di meno la fatica alla fine è più umano e quindi istintivo del soggetto che non pensa a queste cose. Per la razza umana è assolutamente istintivo speculare con curiosità attorno a tutte le attività e non è altrettanto istintivo eseguirle senza pensarci su. La corsa spensierata è tipica dell’età fanciullesca e comunque anche in questa dimensione è molto diversa da quella degli animali. Per poco che ci pensi il bambino ha già un  vissuto psicologico che rende la sua corsa molto diversa da quella di un animale. Il bambino non corre certamente per cacciare prede e per fughe dettate da motivi di sopravvivenza.

Può certamente esistere la corsa spensierata senza finalità alcuna ma possiamo tranquillamente affermare che non è la norma per la razza umana. Se sia un tipo di corsa invidiabile è difficile dirlo in quanto ci sono anche campioni affermati che hanno un grande gusto per la corsa e nonostante che abbiano fatto di quest’arte la loro professione continuano ad aver voglia di correre anche quando non lo è più.

Qualcuno ipotizza anche che certi soggetti nella corsa cerchino proprio le sensazioni di fatica e addirittura le assaporino.  Io sono un po’ scettico su questa cosa ma diciamo che per una elite di eccentrici tutto è possibile, la norma è la ricerca di una corsa che produca un grande avanzamento con basse sensazioni di fatica, anche perché se l’obiettivo è proprio la fatica andare a tagliare la legna nei boschi forse è un’attività più consona al raggiungimento di tale obiettivo.

“Sentire” la non fatica può sembrare un concetto strano ma siccome siamo impostati per percepire la presenza più che l’assenza siamo costretti a sostituire il concetto di fatica con qualcosa di diverso. Molti tecnici dicono di concentrarsi per stare rilassati e tale idea non è del tutto da buttare se non fosse che “concentrarsi” è piuttosto faticoso. Forse si tratta più semplicemente di allenarsi a percepire le sensazioni più gradevoli della corsa. La corsa non è solo fatica, non c’è dubbio, anche se quando la fatica sale sembra diventare la componente più saliente della stessa ma noi avanziamo non grazie alla percezione di questa bensì grazie a tutti gli adattamenti che ci consentono di resistere ai problemi causati da questa. Se ci concentriamo esclusivamente sulle sensazioni di fatica rischiamo di fermarci o come minimo di rallentare e allora siamo costretti ad amplificare ciò che resta dietro a quanto la fatica tende a coprire.

Nel rettilineo finale di una gara di 400 metri che per quanto breve ci dona sensazioni epiche di fatica possiamo percepire quanto la muscolatura sia avvelenata dall’acido lattico ma possiamo anche percepire quanto i muscoli riescano ancora a funzionare nonostante questo avvelenamento che è quanto di più normale che si possa verificare alla fine di una gara condotta a buon ritmo. E’ la valutazione della capacità di avanzare ancora che ci aiuta a finire la gara più che il romantico abbandono alle sensazioni disgustose di parziale impotenza della contrazione muscolare dettate dalla elevata concentrazione di acido lattico.

Forse è semplicemente la storia del mezzo bicchiere vuoto e del mezzo bicchiere pieno e la consapevole valutazione positiva delle proprie capacità di prestazione ma come si può risultare storditi da uno stato di fatica che può apparire esagerato per quanto stiamo producendo si può anche apprezzare con gratificazione quanto di utile riusciamo a combinare ancora con una situazione che potrebbe portare a risultati ben peggiori in caso di mancanza di allenamento e di esperienza nel gestire una situazione simile. La fatica probabilmente è un fatto di esperienza, quando si è poco allenati sorprende in modo imbarazzante, quando si è più allenati non sorprende più e lascia il passo alla più gradevole sensazione che il nostro corpo è in grado di muoversi anche in situazioni che normalmente potrebbero essere condizionate ancora di più dallo stato di fatica. Insomma la fatica che è leggendaria tende a stroncarci ed a limitare le nostre prestazioni ma la “non fatica” che è il rovescio della medaglia è ciò che ci porta a conseguire i nostri risultati migliori e merita di essere studiata e percepita più della banale e romantica fatica. Percepire la fatica è romantico, allenarsi a percepire la “non fatica” per l’essere umano è più razionale e se l’essere umano è certamente anche razionale per certi versi è “quasi” istintivo.