La possibilità di passare dalla cultura del “devo” a quella del “posso” temo che sia prerogativa esclusiva dello sport.
In altri ambiti non ci si riesce a smuovere dalla cultura del devo neanche per sogno e così ci sono fiumi di letteratura ad insegnarci che per la Patria si deve fare questo e quell’altro così come nei tempi moderni bisogna fare di tutto per far salire il PIL e risollevare l’economia. Si tratta di capire se questo fiume di “devo” ci fanno bene alla salute o se siano invece un retaggio antico del quale è giunto il momento di liberarsi una volta per tutte.
Inutile dire, lo sa anche chi è nato molto dopo, che nel ’68 (non un anno preciso ma alcuni anni più o meno terminati drammaticamente con la cultura del riflusso dei primi anni ’80) c’era stato un tentativo di lanciare la cultura del “posso” ma è naufragato nel mare dei fraintendimenti di chi ha fatto finta di non capire perché aveva bisogno della cultura del “devo” per continuare a tenere le gerarchie funzionali al sistema precedente.
Se vogliamo la cultura del “devo” è una cultura fortemente gerarchica fondata su principi anche abbastanza semplici, serve essenzialmente alle vecchie classi dirigenti per continuare a comandare all’infinito, serve a far funzionare l’economia secondo i dettami del sistema capitalista, serve a mantenere una distinzione piuttosto netta fra le classi sociali dove chi ha il danaro comanda e detta le regole e chi non ce l’ha si adatta e deve subire.
Perché affermo che l’unico ambito nel quale si può tentare l’utopia di sostituire la cultura del “devo” con quella del “posso” è lo sport? Perché nello sport, almeno in linea teorica, (poi bisogna vedere se è vero) siamo tutti uguali e gli ultimi hanno gli stessi diritti dei primi. Pertanto nello sport si “può” partecipare, è un diritto per tutti e si “può” anche vincere senza stramaledetti “devo” che vadano ad inquinare la salubrità dello sport.
Secondo chi ha represso l’ipotetica cultura del “posso” quella era solo anarchia fonte di caos e poteva portare, nel breve periodo, a sconvolgimenti sociali assolutamente traumatici e da evitare.
E’ chiaro che alla cultura del “posso” non ci siamo allenati, non siamo abituati alla libertà vera condizionati da mille blocchi, visibili e pure occulti, di varia natura e pertanto potremmo pure combinare guai trovandoci improvvisamente liberi di agire come vogliamo. Ancor di più per quello è il caso di provare la vera anarchia, la vera libertà, il vero sovvertimento delle gerarchie dove tutti almeno a parole (poi nei fatti, ripeto, non mi pare che sia del tutto così…) sono d’accordo e dunque nel mondo dello sport dove la vera sportività viene intesa proprio come l’arte di dare una possibilità a tutti.
Io sono convinto che la cultura del “posso” possa dare grandi risultati nello sport e poi pure nella scuola e poi pure, udite udite, anche nel mondo del lavoro dove avremmo bisogno di molti più artigiani e meno consigli di amministrazione e dove il lavoro ha la necessità urgente di essere meno sfruttato e mediato da chi invece di lavorare vive sul lavoro degli altri.
Gli sport individuali si prestano di più all’apprendimento della cultura del “posso” perché quelli di squadra hanno un limite nella necessità di standardizzare la preparazione per problemi organizzativi. Chiaramente la cultura del “posso” può farsi strada anche negli sport di squadra nel momento in cui vincere non è più un imperativo ma un’opzione.
La cultura del “posso” nasce nel momento in cui l’allenatore diventa un consigliere ma non decide più proprio nulla. L’allenatore ha il compito di capire la preparazione dell’allievo, di decodificarla e di proporre varie soluzioni ma poi deve essere l’allievo in assoluta libertà a decidere cosa fare.
E’ possibile che il risultato faccia più fatica ad arrivare in questo modo, non è per niente garantito che arrivi, però il processo di allenamento si trasforma da una palla difficilmente digeribile ad un qualcosa di molto più divertente che si può portare avanti nel tempo anche se i risultati non arrivano. Il vero sport si pratica per sempre, non solo per il tempo strettamente necessario a capire se c’è qualche possibilità di diventare dei campioni.
Tale filosofia tradotta nel mondo della scuola porta ad una revisione severamente critica di tutto il sistema delle verifiche che condiziona in modo drammatico tutta la scuola attuale ed i metodi di apprendimento.
Tradotto nel mondo nel lavoro è una scelta semplicemente devastante per questo assetto sociale perché vuol dire che tendi a sceglierti il lavoro che vuoi senza attendere con ansia il giorno della pensione. E’ una filosofia che punta a formare più lavoratori e meno datori di lavoro e dove il lavoratore deve rispondere del suo operato essenzialmente a se stesso più che ad un superiore.
Chiaramente se la cultura del “posso” pare giustamente e forse anche facilmente perseguibile nello sport non pare altrettanto facilmente applicabile nella scuola e tanto meno nel mondo del lavoro dove la subordinazione pare requisito essenziale per far andare avanti tutto.
Lo sport, se vogliamo, è un esperimento sociale e più che metafora della vita deve essere laboratorio di esperienze. Se ci si accorge nello sport che la cultura del “posso” ha le carte in regola per migliorare la società allora forse possiamo iniziare a pensare ad una società veramente democratica dove l’importante non è il risultato in termini di ricchezza ma la qualità della vita e pertanto il benessere dei singoli cittadini a prescindere dall’incremento del PIL. E’ chiaro che bisogna cominciare dallo sport ed allora, tanto per essere concreti, non “possiamo” accontentarci di guardare per televisione lo sport ma “dobbiamo” o “possiamo” pretendere di partecipare tutti a prescindere dai risultati che siamo in grado di produrre.
La cultura del “posso” non è molto pubblicizzata sui libri ma deve farsi largo fra la gente laddove l’esigenza di migliorare la qualità di vita è una necessità imprescindibile per tutti, indipendentemente dalla propria collocazione sociale.
Nello sport, che tu sia bravo o meno bravo, parti sulla stessa linea di partenza di chi ti è a fianco, così deve essere in tutti gli ambiti.