COME CORREVAMO

L’articolo sulle “signore del ragù” degli anni ’70 e ’80 delle non competitive ha stimolato una riflessione su come correvamo allora. Le signore del ragù sono rimaste, anzi si sono evolute e prendono parte anche alle corse competitive. In genere è tutto il mondo della corsa che è cambiato.

Ho avuto l’onore di correre con Stefano Mei (ero in gara il giorno che ha fatto il suo record sugli 800 metri, arrivandogli a 2″ ho fatto il mio record personale  che resiste tristemente come record sociale del mio club di allora dopo ben 34 anni…), ho corso con Orlando Pizzolato (ero in gara il giorno che fece il suo record sui 1500, io avevo solo 18 anni e feci il mio record, per fortuna poi migliorato più volte, arrivando ultimo di quella batteria a pochi chilometri da casa di Orlando, a Schio), ho corso con Pimazzoni ed una volta sono pure riuscito clamorosamente a batterlo nei 1500 quando feci il mio record personale su quella distanza, ho corso con Bordin, con Patrignani, ho corso con Jenny di Napoli quando era un ragazzino, in quella gara il favorito ero io per i tempi di iscrizione, andai piano come sempre quando ero il favorito (ero uno scansafatiche e mi piaceva vincere negli ultimi 20 metri), passò come un missile ai 150 finali e fu forse l’unica volta che non provai nemmeno a reagire ad uno sprint finale che generalmente era la mia arma vincente. Ho corso con Andrea Longo ma fu un errore del computer perché ormai ero già vecchio ed il computer mi aveva messo nella batteria dei big considerando il mio ormai stagionato miglior tempo di sempre come tempo utile per l’iscrizione quando ormai non ero più nemmeno l’ombra di me stesso, feci un giro al ritmo dei big e poi non potei fare altro che ritirarmi perché più di metà gara a quel ritmo ormai proprio non ci stava assolutamente. Ho corso con altri campioni e certamente ne dimentico di quelli che non andrebbero dimenticati ma mi va di dire che ho corso anche con Enrico Arcelli che, anche se non è stato un campione ma semplicemente un medico che si è occupato di sport, è stato un po’ il simbolo di quel tempo e la narrazione di quel tempo in un libro (Correre è bello) che ha venduto un’infinità di copie e porta il senso di quell’epoca ai nostri giorni in chi ancora lo legge perché quel testo lì tutto sommato è un testo senza tempo. Era una maratona alla periferia di Milano, Cesano Boscone, nel novembre 1983 ed era un po’ un simbolo di quel tempo quando in una tranquilla maratona di periferia si potevano vedere una trentina di italiani transitare a metà gara attorno ad un’ora e sette minuti, un’ora e otto minuti. Ora su quei ritmi ne passano si e no due o tre e pure in maratone quotate, non in maratone di periferia. E’ aumentato in modo clamoroso il numero delle persone che corrono, è diminuito in modo drastico in numero delle persone che sanno correre forte. L’aspetto positivo è che nessuno si vergogna più a correre a ritmi molto bassi, l’aspetto negativo è che probabilmente a livello tecnico ci siamo involuti se è vero che gli atleti che si allenano abbastanza non sanno più produrre i risultati che producevano un tempo.

Forse al di là dell’aspetto tecnico che è molto difficile e complesso da analizzare (io comunque una mia teoria ce l’ho: il flagello è stata l’inflazione dell’uso del cardiofrequenzimetro per modulare la preparazione) è proprio cambiata la filosofia. Adesso c’è una separazione netta fra pista e strada che un tempo non esisteva. Un tempo tutti gli stradisti erano almeno un pochino anche pistaioli e si può pure dire viceversa perché saltuariamente andava su strada anche il pistaiolo da 800 e 1500. Adesso ci sono ottocentisti che non corrono mai più di 1000 metri nemmeno per sbaglio e stradisti che la pista non l’hanno proprio mai vista e non sanno nemmeno quale sia la più vicina a casa loro.

In tema di preparazione si sperimentava molto di più di quanto si fa adesso. L’età nella quale sparavamo le nostre cartucce era fra i 20 ed i 25 anni, adesso ci sono atleti che si mettono a giocare duro dopo i 40 anni quando ormai i giochi sono fatti e di soggetti fra i 20 ed i 25 anni che si impegnano davvero se ne trovano gran pochi se non sono professionisti da due allenamenti al giorno.

Si correva diversamente anche da un punto di vista tecnico e difficile dire se si correva meglio o peggio, perché tutti i discorsi sulla tecnica di corsa sono opinabili ma una cosa pressoché certa è che si correva a frequenze inferiori a quelle di adesso o meglio con ampiezze superiori. Una frequenza passo di 180 passi al minuto non era inusuale per un atleta che correva a 3’20” per chilometro mentre adesso a quelle frequenze c’è chi corre a 5′ per chilometro. Mediamente eravamo molto più veloci dei corridori di lunghe distanze di adesso non solo in senso assoluto come prestazioni ma anche in senso relativo perché quasi tutti riuscivamo a correre i 100 metri in meno di 13″, anche chi non era specialista del mezzofondo mentre adesso su quei tempi ci va solo chi è specialista di 800  e 1500 a meno che non sia un fondista di alto livello. Mediamente ci bruciavamo come atleti molti più rapidamente di quanto facciano i podisti di adesso ma ciò dipendeva essenzialmente dal fatto che ci allenavamo di più. Si tendeva a sparare tutto su pochi anni di fulgore per puntare a risultati di un certo decoro e andando molto spesso vicini ai carichi da infortunio e forse è anche per questo che i migliori atleti delle categorie amatoriali di adesso non sono atleti che hanno brillato in quegli anni ma soggetti che magari hanno iniziato a correre molto più tardi.

Era una filosofia diversa, inutile dire se fosse migliore o peggiore e fra di noi eravamo un po’ meno “uguali” dei podisti di adesso se non in una cosa: che eravamo più o meno tutti uguali in un modo individuale di intendere lo sport ed in questo senso non ci entusiasmava uniformarci nella preparazione a schemi precostituiti perché ognuno aveva l’ambizione di fare un qualcosa in più dell’altro.

Tanto per non dare solo tinte di splendore a quell’epoca come può fare un vecchio rincitrullito che vede il buono solo nel passato si può pure dire che era uno sport più feroce di quello di adesso e forse più stressante perché meno di routine, sempre a caccia di sorprese, sempre alle prese con errori di preparazione dovuti all’eccesso di sperimentazione. In tema di doping posso permettermi il lusso di sfatare un mito. Il doping era essenzialmente un fatto di professionisti (come tutto sommato penso che sia ora) ed il ricorso al farmaco sistematico o all’integratore sistematico non era assolutamente la norma. Non c’era la percezione che tale abitudine potesse essere decisiva per far cambiare cilindrata ad un atleta e probabilmente proprio perché il doping era meno evoluto si scherzava sugli alti e bassi degli atleti che erano attratti da certe pratiche. In tal senso non esisteva l’omertà di adesso e non ci si scandalizzava per nulla del fatto che soprattutto nell’alto livello non ci si accontentasse solo dei miglioramenti garantiti dalla preparazione tecnica.

Adesso c’è una scollatura tale fra l’alto livello ed il livello amatoriale per cui chi pratica attività non di vertice non si sogna nemmeno di provare certi trattamenti. Anche se ci si dopa molto più adesso di allora si può tranquillamente affermare che ormai il doping è una questione solo per l’alto livello della disciplina ed in tal senso probabilmente sono stati fatti dei passi in avanti. Non esiste più il doping fai da te e ciò limita di molto i rischi per l’atleta. Quello che è un po’ triste è che adesso di doping non si sa proprio nulla e pertanto ci si beve i verdetti dell’antidoping come oro colato, diciamo semplicemente che le informazioni non viaggiano più come viaggiavano un tempo proprio perché è stata operata una separazione netta fra lo sport di vertice e lo sport comune.

Anche a livello economico e di premi le cose sono cambiate e forse pure queste hanno permesso una separazione netta fra i vari livelli. Mentre i numeri uno di adesso prendono cifre molto più consistenti dei numeri uno di un tempo i numeri due di adesso non prendono più quasi nulla e pertanto tendono a sparire dalla categoria di numeri “due” nel senso che o diventano dei professionisti a tutti gli effetti o si mettono a fare gli amatori prima del tempo. Mentre un tempo non esisteva l’amatore di vent’anni perché era comunque un atleta di alte prestazioni anche se non un professionista adesso esiste anche l’amatore di vent’anni che è quell’atleta che dai tredici anni ai venti non ha praticato nessuno sport e poi a vent’anni si sogna di mettersi a fare le gare. Questa che da un punto di vista del rendimento sportivo è una scelta semplicemente sconcertante da un punto di vista dello spirito sportivo forse è una conquista perché è la dimostrazione che si può fare sport come cavolo si vuole anche se non si raggiungono certi livelli prestativi. Peccato che tale atteggiamento sia comune solo negli atleti che praticano la corsa su strada e non sia invece diffuso anche in tema di atletica su pista perché quest’ultima, almeno in termini numerici, avrebbe tutto da guadagnarci dalla diffusione di un atteggiamento simile.

Ovviamente eravamo diversi anche nell’abbigliamento che si è certamente evoluto e non esiste adesso trovare un atleta da 3′ al chilometro che corre con un folcloristico berrettino con il “pon pon” mentre è possibile trovare un atleta che si trascina ai sei minuti al chilometro che corre con l’abbigliamento uguale uguale a quello del campione olimpico. Il business ha certamente infiltrato il mondo della corsa che è un mondo di grandi numeri e muove cifre colossali.

Guardando all’aspetto positivo si può tranquillamente affermare che ci sono i presupposti per fare in modo che la pratica della corsa abbia un impatto decisamente positivo sulla salute della collettività. Bisogna fare leva sul concetto della “normalità”, correre è assolutamente normale, mentre un tempo si diceva “Perchè corri?” adesso si può arrivare a chiedere “Perche non corri?”. Questa “normalità” della corsa può essere trasferita alla pratica della corsa su tutte le distanze perché la corsa fa bene in tutte le sue espressioni, non solo nella modalità di corsa lenta e molto lunga. Ovviamente bisogna fare i conti anche con il business, per il mercato è certamente più utile continuare a spingere la corsa sulle distanze molto lunghe che è un ottimo contenitore per folle oceaniche. Per la salute della popolazione occorre una corsa su tutte le distanze praticata a tutte le età e pertanto se le “signore del ragù” sono approdate anche alle corse pseudo agonistiche (la classiche “mezze maratone” che ormai in Italia corre chiunque) a maggior ragione è giusto che i ventenni siano impegnati nella corsa e se non è 3’48” sui 1500 sarà 4’05”, pazienza, se non 10″5 su 100 metri sarà 11’2 ma fateli correre in qualche modo a costo di buttarli sulle mezze maratone corse a quasi 4′ per chilometro (che una volta era la classica andatura dei “tapascioni”). Ciò che è molto importante proprio per un discorso di salute generale è che in un test scolastico in una classe di diciottenni non ci si trovino alcuni soggetti che non riescono a correre i 1000 metri nemmeno in sei minuti perché quello non è un  risultato sportivo scadente ma un parametro fisiologico che denuncia una situazione potenzialmente pericolosa per la salute. Se si corre tendenzialmente in un modo più sano e meno esasperato di un tempo è giusto che tale opportunità sia alla portata di tutti. Altrimenti ci tocca dire che si stava meglio quando si stava peggio e dietro ai pazzi  scatenati che facevano della corsa la loro ragione di vita c’erano comunque i giovani “normali” che sapevano correre mediamente molto più forte di quelli di adesso.