CENTRALITA’ DELLA MOTIVAZIONE

Molti tecnici sono d’accordo sul fatto che la motivazione sia molto importante per l’atleta e che sia determinante per raggiungere buoni risultati.

Penso anch’io che la motivazione sia molto importante, non a caso ci ho scritto su molti articoli alcuni dei quali anche poco comprensibili perché animato dalla presunzione di sviscerare concetti un po’ complessi legati alla motivazione.

Che la motivazione non sia molto facile da comprendere direi che non ci siano dubbi. Siamo soggetti complessi, ognuno con la sua testa e ognuno ha una motivazione diversa.

Il concetto che vorrei sviscerare qui sopra è come sia importante per il tecnico ma anche per l’atleta (da certi punti di vista “soprattutto” per l’atleta) tentare di comprendere questa motivazione nei suoi aspetti qualitativi più che in quelli quantitativi. Perché in modo un po’ curioso dico quasi più per l’atleta che per il tecnico? Per certi versi il tecnico da queste cose può anche starne fuori. E’ pure possibile che l’atleta voglia fare risultati nello sport per “dimenticare”. Al tecnico, per assurdo, questa cosa può anche non interessare. L’atleta ha voglia di fare sport, ha voglia di applicarsi ed ottenere buoni risultati, chi se ne frega di qual’è la causa scatenante di questo slancio, io mi occupo solo di fornire gli strumenti tecnici all’atleta per maturare sportivamente.

Da un altro punto di vista la comprensione degli aspetti qualitativi della motivazione dell’atleta è invece abbastanza importante anche perché, per fare le cose fatte bene è importante che la motivazione allo sport abbia certe caratteristiche per sostenere con una certa continuità l’attività sportiva.

Partiamo da cose banali ma non del tutto stupide per comprendere questo tipo di motivazione. Il ragazzino che fa sport perché sogna di diventare un campione. Io la chiamo la motivazione “televisiva” che esiste, per carità, ed in un primo tempo può funzionare anche bene solo che ha un grosso limite che si può manifestare anche abbastanza presto: quando il ragazzino si rende conto che è molto improbabile che riesca diventare un vero numero uno dello sport nel quale è appassionato può crollare tutto.

Lo so che fa ridere ma il ragazzino non faceva sport per il gusto di farlo ma solo animato dalla sana ma pericolosa motivazione di diventare un campione. Ce ne sono più di quanti si possa pensare, un tempo ce n’erano ancora di più, un tempo si accorgevano un po’ più tardi del fatto che c’erano poche possibilità di emergere (e forse le diagnosi di allora erano più attendibili di quelle di adesso perché adesso ci sono ragazzini bollati per improbabili numero uno già a 14 anni…) e qualcuno anche se aveva scoperto che c’erano poche possibilità di segnare in modo importante la storia dello sport aveva già capito che fare sport è comunque importante, anche se non diventi un campione e sopravviveva a questo trauma.

Ecco, un punto centrale è quello, capire che anche se non diventi un numero uno fare sport è importante. Che la storia dello sport la scriviamo tutti anche chi è uno straccione, anzi certe volte ancora di più chi è uno straccione.

Nella mia storia sportiva personale l’unica cosa importante che, anche se non è scritta da nessuna parte, è per certi versi nella storia dello sport, se non del mio quartiere almeno della mia famiglia, è che di soggetti che a 14 anni partivano così dal basso per arrivare ad un livello qualitativo a vent’anni da esser lì ad aver fretta per tentare di prendere treni importanti, non ce ne sono stati in giro tanti. La mia sfortuna non è stata andare troppo piano come ragazzino ma andare troppo forte a vent’anni. Se a vent’anni fossi stato in linea con i risultati che facevo a 14 probabilmente sarei riuscito a completare la mia carriera sportiva senza fretta a 30-35 anni. Invece preso dalla fretta di risultati interessanti a vent’anni, solo tre o quattro anni più tardi ero già fracassato da allenamenti che senza farmaci non erano sostenibili (ed io avevo il tarlo della “purezza” che forse poteva anche essere un buon tarlo ma non potevo avere la presunzione di sostenere senza farmaci una preparazione che era possibile solo per chi si aiutava in modo sistematico con i farmaci).

Accennando in queste poche righe autobiografiche al mio percorso sportivo posso far capire come la motivazione possa essere anche esagerata e deva essere anche controllata più che alimentata. Io ho sempre avuto la motivazione giusta per fare sport, fin da piccolo, ero semplicemente curioso di capire dove potevo arrivare senza pormi traguardi particolari. Poi improvvisamente la motivazione si è snaturata, è diventata quella di un bambino. Quando i bambini generalmente capiscono che non ce la fanno a diventare campioni (e lì rischiano di mollare tutto) io ho capito che invece avevo i numeri per emergere anche se questi numeri non si erano mai visti negli anni precedenti. Ho cominciato a pigiare sull’acceleratore in modo sbagliato, quell’acceleratore sul quale avevo premuto sempre in modo consono portandomi in pochi anni da adolescente decisamente poco performante ad atleta di discreto interesse. Con dietrologie un po’ arzigogolate qualcuno dice che ho pagato a vent’anni il mio essere deboluccio a 14 nel senso che se già a 14 anni avessi ottenuto risultati discreti mi sarei trovato più pronto nel gestire una carriera sportiva interessante, invece provenendo dal nulla mi sono sentito una specie di predestinato che doveva fare ancora meglio di chi già era forte a 14 anni.

Vista in modo più semplice il mio fisico da atleta inventato non certamente da bambino ha retto per un certo numero di anni a sollecitazioni di una certa importanza poi la presunzione di voler aumentare ulteriormente i carichi dopo anni di impegno già sostenuto ha dato il colpo di grazia ad un fisico che certamente non era quello di un campione almeno come base di partenza.

Insomma la motivazione più che impetuosa ed incontrollata deve essere continua perché quando è troppo elevata rischia di fare danni a 14 anni come a 20. E allora bisogna partire dal concetto di sport che si fa sempre a prescindere dai risultati che si ottengono.

Non ci si impegna più in modo intenso per ottenere dei risultati molto gratificanti ma ci si impegna in modo razionale per tirare fuori il meglio di ciò che si può fare accontentandosi di ciò che viene fuori e studiando continuamente la validità della preparazione. Nel concetto di validità della preparazione deve entrare un nuovo criterio. La preparazione può essere definita valida se oltre a determinare significativi miglioramenti del livello prestativo dell’atleta riesce anche ad essere divertente. Non ha senso una preparazione sostenibile al massimo per un paio di anni che comporta grandi sacrifici, è terribilmente noiosa e sovraccarica il fisico oltremodo rendendo pure lecito il quesito se avvalersi o meno dell’ausilio farmacologico (per me si chiama semplicemente doping ma non si può chiamarlo così perché ti denunciano per calunnia…).

Una carriera sportiva normale se portata a compimento può durare tranquillamente 15 o 20 anni. Poi si passa gradualmente all’attività amatoriale che è un’altra cosa ed ha certamente altre motivazioni ma in ogni caso non si può pensare di usufruire per 15 o 20 anni di una motivazione del tutto eccezionale improntata al rigore più assoluto di comportamenti dettati dalla “necessità di vincere”. La necessità di vincere è una balla spaziale ed esiste invece la necessità di sopravvivere che è più o meno di tutte le età, talvolta curiosamente accentuata anche in quarta età quando finalmente ci si potrebbe rilassare un po’.

Allora forse si tratta di sostituire la cosiddetta motivazione “televisiva” (mi alleno per diventare un campione) che può durare tre o quattro anni con una motivazione più autentica che è di sana esplorazione dello sport tentando di capire quali siano tutte le nostre possibilità nell’affrontare quello sport. Possibilità che se tutto funziona a vent’anni saranno certamente superiori che a 14 è pertanto, senza strafare, è certamente sensato spingere un po’ di più sull’acceleratore a quell’età ma nella consapevolezza che l’affinamento tecnico sportivo può procedere per altri cinque o dieci anni e non è per niente detto che deva risolversi in un paio d’anni condotti con allenamenti quasi insostenibili.

L’allenatore che si intromette in questi discorsi è certamente un allenatore invadente ma per certi versi è anche un allenatore più onesto e coerente di quello che se ne disinteressa perché è anche opportuno riuscire a fare delle previsioni su quello che è un certo percorso sportivo. Il ragazzo che ti dice: “Io voglio sparare tutte le cartucce fino a sedici-diciassette anni, poi se non emergo mollo tutto perché a me interessa solo un certo tipo di carriera sportiva” per conto mio è un ragazzo che va forgiato nella motivazione che non è certamente la migliore per fare sport nel modo più razionale.

Poi è chiaro che bisogna fare i conti con la realtà e dire ad un ragazzo di 18 anni che si sta affannando per entrare in un gruppo sportivo militare “Devi stare tranquillo perché se ti stressi troppo adesso fra un paio d’anni rischi di essere infortunato o demotivato”, non è per niente facile perché questo ti può anche dire che se non riesce ad entrare in un gruppo sportivo militare mollerà completamente l’attività sportiva perché andrà a fare uno stramaledetto mestiere che lo occupa dieci ore al giorno e non avrà più tempo per allenarsi neanche per ottenere risultati mediocri.

Le vicende individuali sono terribilmente variegate e ognuno ha la sua testa. Tanto per dire una cosa curiosa ci può anche essere chi il lavoro da dieci ore al giorno lo rifiuta e dice “No, piuttosto io vado a dormire sotto i ponti ma un lavoro che mi costringe a mollare completamente lo sport a vent’anni non lo subisco perché non trovo che sia una cosa salutare.”

Quel soggetto ha una motivazione allo sport del tutto particolare: non si allena per diventare un campione ma si allena per non essere stritolato da una società che stritola tutto e tutti.

Da un punto di vista personale ritengo questa motivazione allo sport molto più sana di quella che anima il presunto campione. Nella nostra società il, diritto allo sport dovrebbe essere sacrosanto e che non si riescano a trovare facilmente professioni che consentono di portare avanti una normale carriera sportiva non è un problema di sport ma un problema sociale.

Personalmente ritengo che non sia molto utile utilizzare lo sport per adeguarsi alla società tritatutto (e da quel punto di vista ammazzarsi di allenamento è la cosa più normale) quanto utilizzarlo per cambiare la società nei suoi aspetti aberranti e pertanto considero il lavoro quella cosa importante che mi da i mezzi per la mia sussistenza ma non lavoro con ritmi che mi stroncano l’esistenza come se avessi solo un paio d’anni per accumulare più ricchezza possibile.

Lo sport strumento di salute non è un parcheggio, si pratica più o meno dai 14 ai 30 anni e, cosa strana, nella nostra società non è molto di moda perché già a 18 anni se non prima ti dicono che accumulare danaro è la cosa più importante e pertanto di tempo per lo sport non è che ce ne sia. Soprattutto se non sei un campione.

La motivazione va modulata, studiata, controllata. Non è per nulla vero che più si è motivati e meglio è, bisogna capire che tipo di motivazione è.