ASPETTO TECNICO ED ASPETTO POLITICO DELL’ORGANIZZAZIONE SPORTIVA

Ho ripetuto più volte che non farei manco morto il presidente della Fidal, Federazione Italiana di Atletica Leggera, sport del quale sono innamorato che ha condizionato e continua a a condizionare la mia esistenza in modo significativo. Non farei mai il presidente della federazione di quello sport perché anche se è lo sport che apprezzo di più ritengo che con le condizioni attuali sia pressoché impossibile presiedere quella federazione in modo dignitoso: mancano i soldi e soprattutto le politiche per poter affrontare progetti importanti. Senza scomodare l’ambito nazionale, nel mio piccolo mi è stato chiesto perché non mi candidavo per la presidenza del comitato provinciale, risposta (all’attuale presidente…): “Se tu fai l’Assessore allo Sport io ti faccio il buon presidente di Comitato Provinciale Fidal, altrimenti io i miracoli non li so fare…”. In ambito locale si ripropone quanto accade a livello nazionale. Dietro ad un incarico tecnico organizzativo occorrono delle scelte politiche che solo i politici hanno la capacità ed il potere di prendere che se non vengono prese rendono vano ogni sforzo organizzativo del migliore dei presidenti possibili per una data federazione sportiva.

Se c’è un certo progetto politico in atto fare il presidente di Federazione, sia a livello locale o a livello nazionale può diventare facile ed edificante, si tratta solo di avere le competenze tecniche per mettere in atto le scelte politiche.

Faccio un esempio terra terra: c’è bisogno di una pista per l’atletica leggera: mi dai i soldi per farla, l’area sulla quale deve sorgere (che deve avere determinati requisiti e te li dico io…) ed io con poche telefonate, senza neppure scomodarmi più di tanto, ti sistemo tutto. Faccio un figurone, è oltre 40 anni che calco le piste di atletica non ci impiego molto a capire quale è un buon prodotto e quale è un bidone. Ma il problema non è quello, è trovare i soldi e chi mi dà l’autorizzazione a costruire la pista per l’atletica. Ma allora il problema non è del presidente della Federazione ma di quel politico che tira fuori i soldi, che decide che l’impianto è importante per la collettività e che decide che il centro commerciale si può fare da un’ altra parte anche se aveva chiesto di acquisire proprio quell’area perché è strategicamente utile anche per un centro commerciale.

La federazione italiana di atletica è bloccata nel suo sviluppo da poche importanti cose, la prima, la più ovvia, è che è priva di un bilancio accettabile per poter affrontare progetti importanti ed a largo respiro, la seconda, collegata a questa, è che per tentare di far fronte a questo inconveniente deve adottare delle strategie di comportamento che tengano conto del potenziale interesse di eventuali sponsor privati che diventano fondamentali a tal punto anche per organizzare semplicemente l’attività, le terza, decisiva e forse più importante di tutte con un forte connotato politico, è che non esistono  capillari ed efficaci politiche di coinvolgimento della scuola nella pratica dell’atletica leggera.

Alla fine è proprio una scelta politica a condizionare il tutto e che questa grossa scelta politica sia ancora una volta condizionata da fattori economici è pure possibile nel senso che per la scuola affrontare un progetto di diffusione dell’atletica è troppo oneroso, mancano tempi, spazi e strutture, ci sarebbero solo gli istruttori ma mancano le disponibilità economiche per rimborsarli e se ci si deve affidare solo al volontariato si creano problemi di carattere organizzativo insormontabili (se credi che uno possa lavorare gratis negli orari che gli imponi tu ti sbagli di grosso…).

Dunque dietro all’aspetto tecnico dell’organizzazione dell’attività sportiva c’è sempre l’aspetto politico che lo prevarica e ne rende possibili o impossibili determinate scelte. Semplificando si può pure affermare che in presenza di certe scelte politiche è opportuno trovare un buon tecnico che sappia coordinare bene i lavori ma in assenza di certe scelte politiche è assurdo provare a cercare un tecnico che faccia i miracoli.

A me, per esempio, piacerebbe che la Federazione di atletica riuscisse a privilegiare l’aspetto dello sport di base, del coinvolgimento continuativo ed entusiasmante (non casuale e scarsamente coinvolgente da un punto di vista emotivo) di un gran numero di ragazzini ma un obiettivo del genere non è raggiungibile se non si chiama in causa la scuola con un progetto ben articolato e non legato solo ad iniziative a spot sparse qua è là per iniziativa di società di atletica lungimiranti.

L’attuale federazione deve far i conti con i preziosi introiti provenienti dalle sponsorizzazioni che seguono logiche diverse da quelle del coinvolgimento di una gran massa di ragazzini nell’attività. La pubblicità viene veicolata meglio dagli atleti di spicco ed è grazie ai buoni risultati di questi che gli sponsor mostrano attenzione. Così ci si trova nella necessità di far rendere al massimo quei pochi campioni che si hanno per dare una buona immagine di quello sport a livello nazionale.

Alla fine, in mancanza di un assetto organizzativo efficiente che possa coinvolgere una buona base (per carenza di fondi) ci si trova a sperare nel tecnico che possa fare i miracoli partendo da pochi atleti di notevole valore ma il tipo di miracolo che viene chiesto a tale tecnico è quello di far arrivare una medaglia importante non certamente di tirare fuori dal cilindro magico un milione di nuovi praticanti come per incanto. E, pertanto, sarà un tecnico abituato a lavorare con i campioni e a ricercare da questi sempre il meglio di ciò che possono dare. La missione ha fini nobili, per carità e, tutto sommato, per un tecnico essere costretti a far rendere al massimo un certo atleta perchè altri non ce ne sono disponibili non è nemmeno una brutta cosa. Non puoi permetterti il lusso di sbagliare, non puoi fare esperimenti. Resta da vedere se l’atleta nella consapevolezza di essere “animale raro” si senta abbastanza a suo agio in questo ruolo. Per certi versi può sentirsi orgoglioso e responsabilizzato di questo ruolo per altri versi si può sentire ingabbiato, controllato e, troppo responsabilizzato appunto, prima ancora di riuscire a produrre quei risultati che possono dare tanto lustro alla sua federazione di appartenenza.

C’è sempre un conflitto fra il reale e l’ideale dove il reale è la mancanza di fondi a disposizione e la necessità di salvare almeno la faccia di una Federazione che è certamente in crisi per la mancanza di interventi strutturali decisivi. L’ideale sarebbe poter collaborare concretamente con la scuola con interventi organici e ben strutturati per portare l’atletica praticamente a tutta la popolazione studentesca e per operare, anzitutto un grande intervento di profilassi sanitaria. A margine di un intervento sacrosanto del genere vi sarebbero tutte le possibilità di aumentare concretamente il numero di ragazzi praticanti a tutti gli effetti l’atletica leggera e portarlo, per esempio, a cifre vicine a quelle riscontrabili nel grande calcio che è lo sport nazionale o anche a quelli della pallavolo che non sono certamente numeri trascurabili. Da questa situazione arrivare alla creazione di una base di atleti anche di buon livello il passo non sarebbe molto difficile ed il passo successivo della formazione di una squadra nazionale decisamente più competitiva di quella di adesso sarebbe un  optional.

E anche questo è un discorso politico che è giusto precisare. Ho citato il grande calcio o la pallavolo come esempi da imitare ma l’ho fatto per il gran numero di atleti di buon valore (oltre che per la base invidiabile) coinvolti in questi sport e non per i risultati sportivi ottenuti dalle singole federazioni. Se fosse per questo per esempio la Federazione Italiana Giuoco Calcio si lamenta che a fronte di un movimento giovanile imponente e di grandissima qualità non si riesce ad allestire una Nazionale assoluta di calcio che abbia una gran continuità di produzione di risultati veramente apprezzabili a livello internazionale. Vi sono dei fatti squisitamente tecnici alla base di tale comportamento, tipo la strutturazione dei nostri campionati professionistici ed gran numero di giocatori stranieri coinvolti in questi ma ciò che è assolutamente incontestabile è come la base sia un’ottima base e se i risultati che si pretendono a livello assoluto non sono quelli che si vorrebbero la colpa non è certamente da ricercare in una base carente. Anche nella pallavolo il numero di praticanti è un numero molto considerevole (soprattutto a livello femminile) e, tutto sommato, i risultati ottenuti dalle rispettive nazionali non sono per niente sottovalutabili, soprattutto grazie a questa buona base appunto. Ma se nella stagione dove le Nazionali fanno un flop c’è qualcosa che va storto non è certamente perché la base è crollata perché quella è buona ed ha tutta l’aria di tenere bene a prescindere dai risultati ottenuti dai migliori pallavolisti italiani.

Tutto questo per dire che alla fine determinare se l’obiettivo è la medaglia olimpica, il Campionato del Mondo o arrivare ad avere un milione di praticanti veri è una scelta più politica che tecnica. Da un punto di vista tecnico la costruzione di una gran base è certamente una gran mossa, quasi sempre molto produttiva per la produzione di un buon vertice. Non si può dire la stessa cosa per il fenomeno contrario laddove a volte la produzione di un risultato eccezionale a livello internazionale non riesce a creare i presupposti per migliorare di molto la base (essenzialmente perché mancano le strutture).

Per non concludere tali considerazioni in un discorso prettamente da bar (quali sono i discorsi teorici legati ad un modello ideale che non esiste e che forse non esisterà mai) a me piacerebbe che per esempio in atletica un ragazzino di sedici anni continuasse la pratica agonistica pur non essendo un campioncino e senza sentirsi un eroe. Perché nel panorama dell’atletica nazionale attuale il sedicenne che ottiene risultati normali, se non mediocri, e continua la pratica sportiva con dedizione ed assiduità come un ‘atleta vero è un autentico eroe. E lo è anche perché fa sacrifici a scuola nel senso che la scuola non  ti perdona nulla nemmeno se sei un campioncino, figuriamoci se sei una mezza calzetta (“… guarda che da grande non ti guadagnerai mica il pane con l’atletica!”) e pertanto non hai il conforto morale di nessuno, anzi è già tanto se non sei fortemente incentivato a smettere.

Mi piacerebbe che chi fa atletica a sedici anni senza ottenere grandi risultati fosse considerato un ragazzo assolutamente normale, non un eroe. Ciò farebbe certamente bene a lui, perché farebbe bene alla sua salute, e forse pure a quella del suo coetaneo che sapendo di essere un mezzo campione potrebbe pure permettersi il lusso di essere meno stressato perché “Vabbè… se divento un campione chissà che bello, se non lo divento continuo a fare attività come il mio amico e con il mio amico che tanto con la scuola riusciamo ad arrabattarci ugualmente.”

Al giorno d’oggi pare che chi investe molto tempo sullo sport dopo i 15-16 anni sia autorizzato a farlo solo se ha l’ambizione di diventare un mezzo professionista altrimenti tutto il tempo dedicato allo sport viene considerata un’autentica scemata in assenza di un obiettivo di livello assoluto. L’atletica (così come il nuoto ed altri sport che coinvolgono con allenamenti spalmati su un gran numero di ore) risente molto di questo atteggiamento di freddo calcolo.

Senza dare colpe a nessuno, anche se è innegabile come la scuola attuale sia diventata molto più competitiva di quella di un tempo, e senza pretendere grosse rivoluzioni nel mondo dello sport giovanile sarebbe proprio opportuno che “tecnicamente” si trovassero le strategie per tenere agganciati allo sport vero anche i ragazzi che non offrono risultati di alto livello. E’ chiaro che non potranno essere premi in danaro e non sarebbe nemmeno giusto che lo fossero (io contesto le borse di studio per i campioncini in erba: ma come, è già contento perché è un campioncino devi anche “gonfiarlo” con una borsa di studio? Ma allora vuoi proprio che si iscriva ad un istituto privato per presunti campioni e si emargini prima del tempo? Questa, a casa mia, si chiama specializzazione precoce e non costruisce i campioni ma li distrugge) ma qualcosa a livello organizzativo per coinvolgere anche i meno performanti bisogna pure inventarsi. E’ una scelta tecnica e forse politica al tempo stesso e parte dal presupposto che la nostra organizzazione per carenza di mezzi e strutture non riesce ad incentivare i meno bravi. Decidere che i meno bravi servono è la scelta politica (e servono perché quella è prevenzione sanitaria) trovare le strategie per riuscire a coinvolgerli anche senza poter disporre di fondi adeguati e di un sistema organizzativo efficiente è il colpo da maestro che un grande tecnico deve riuscire a fare. Non ci serve il tecnico che fa il miracolo della medaglia partendo da atleti scarsi, ci serve quello che fa il miracolo di entusiasmare ragazzi che è pure possibile che restino scarsi a lungo. Non più esortazioni a “risparmiare tempo” in favore della scuola ma ad “investire” tempo in qualcosa che fa molto bene alla salute sia che diventi un campione come che non lo diventi, a 8 anni come a 18. Ed io, che vedo i disastri perpetrati sugli adulti, aggiungo “ed anche a 28 anni, a 38 a 48 e non solo quando si va in pensione come troppi “ex-sportivi” fanno.