I limiti del linguaggio sono ben più drammatici in certe cose che non riguardano lo sport e mostrano lì, chiaramente, la loro importanza. Si pensi a quanto il papa, in tutte le lingue, a chiare lettere, dice che la guerra non va fatta e poi la maggior parte dei cattolici, di fatto, sponsorizza le guerre votando politici che promuovono l’incremento delle spese militari.
Se fossi il papa io farei sciopero e chiuderei tutte le chiese per vedere se la religione è un qualcosa che serve per riempire la bocca e fare bella figura o se è un credo da supportare con scelte autentiche ed anche onerose per il proprio stile di vita.
Nello sport la questione è più fine e ben meno drammatica ma non per questo non merita di essere analizzata e valutata.
Un esempio semplice riguarda le sensazioni di fatica dello sportivo, molto difficili da descrivere con una certa precisione.
L’allenatore può prevedere che per una certa seduta di allenamento deva essere impiegata una certa quantità di fatica ideale, sotto la quale la seduta di allenamento è poco utile e sopra la quale non è opportuno andare perché magari aumenta in modo esponenziale il rischio di infortuni, oppure, per altri motivi, il gioco non vale più la candela. Occorre che il linguaggio del tecnico sia facilmente comprensibile e che l’atleta sia attrezzato per decodificarlo nel modo migliore. Se il capo dei cattolici non riesce a farsi capire quando dice che non bisogna fare guerre e bisogna far tacere le armi temo che sia molto difficile per un allenatore spiegare qual’è il livello di fatica ideale. Mi si dirà che i cattolici sono un po’ disgraziati ed al loro capo dicono sì, sì e poi fanno esattamente il contrario mentre l’atleta non ha nessun interesse a bluffare col proprio tecnico ma poi accade che anche l’atleta interpreti male, senza nemmeno rendersene conto e per motivi che non riesce nemmeno a comprendere.
Trattando di fatica c’è la leggenda difficile da smontare secondo la quale più l’atleta fa fatica e più è un virtuoso quando invece è esattamente il contrario perché se l’atleta fa troppa fatica non può progredire ed evolversi nelle tecniche di allenamento e può semmai tamponare in modo provvisorio situazioni precarie che non possono durare a lungo perché la fatica costa e non può essere reiterata in modo esagerato.
Dunque non è per niente utile mascherare la fatica e far passare per fatiche sopportabili fatiche che in realtà sopportabili non lo sono proprio per nulla e creano invece situazioni di affaticamento e di disagio che è bene non provare.
Una precisione del linguaggio in tal senso è proprio utopia, non si possono escogitare numeri (qualche luminare ha provato a classificare la fatica proprio secondo descrizioni tradotte in numeri ma per conto mio quel luminare ha semplicemente dato i numeri punto e basta…) per definire la fatica e semmai un’intesa extra linguaggio fatta di espressioni e comunicazione non verbale fra tecnico e atleta può essere considerata anche con una certa attenzione.
Il linguaggio ha indubbiamente dei grandi limiti. Pensiamo, proprio andando sul sottile e fra persone che non hanno nessuna voglia e nessun interesse a fraintendersi, anche quante incomprensioni il linguaggio possa creare fra coppie di innamorati. Gli innamorati, se sono davvero innamorati, hanno un grande interesse che è quello di continuare ad andare d’accordo, eppure nonostante questo grande interesse, grazie al linguaggio (grazie? Grazie per niente! Per “colpa” del linguaggio…) riescono a litigare e ad andare in crisi e ci si chiede se questa scusa del linguaggio complesso e che crea equivoci non sia un sistema per ravvivare il rapporto che per chissà quali motivi langue o se in realtà il linguaggio complesso non sia una vera e propria trappola che riesce a mettere in crisi anche i rapporti che potenzialmente funzionerebbero abbastanza bene.
Questo stesso articolo fatica ad andare a bersaglio perché il significato che do io a certe parole non è quello che può dare un certo tipo di lettore.
La fatica che intendo io, per esempio è quella della rielaborazione dei dati e l’analisi delle sensazioni di un certo allenamento per tentare di capire come potrà essere strutturato l’allenamento successivo. Ci sono atleti che di questo tipo di fatica non vogliono nemmeno sentir parlare perché loro per queste cose non hanno tempo, vanno al campo, decide tutto l’allenatore e se la seduta di allenamento proposta sia più o meno utile chi se ne frega, quelli sono tutti cavoli dell’allenatore, è lui che deve decidere che allenamento bisogna fare, è lui che deve assumersi la responsabilità di eventuali errori. Tale cosa è talmente vera che è pure diffusa la moda di programmare le sedute di allenamento senza per nulla valutare cosa succede di volta in volta per fare in modo che il tempo per la scelta della seduta stessa venga ridotto all’osso e così teoricamente l’atleta può andare al campo per molti giorni consecutivi senza pensare assolutamente e cosa è opportuno fare tanto ha già tutto programmato a prescindere da cosa succede in allenamento.
Questa, per conto mio, è un’ aberrazione della preparazione moderna, molte volte computerizzata, dove c’è il cattivo gusto di elaborare famigerate schede per riassumere in poche righe la preparazione magari di un mese e dove ciò che riferisce l’atleta ormai non conta più quasi nulla.
In un contesto tale il linguaggio non può nemmeno evolversi e tanto meno la comunicazione fra tecnico ed atleta ridotta talvolta a vera e propria trasmissione di numeri. In quel caso, con una battuta tragicomica, io ho la presunzione di dire che quel tecnico sta semplicemente dando i numeri ma la tragedia vera è che quel tecnico non si rende conto di prendere in giro l’atleta e pensa invece che quello sia il miglior servizio che può offrirgli perché pure supportato da protocolli pseudo scientifici che in realtà di scientifico non hanno proprio nulla.
Insomma il linguaggio dovrebbe essere uno strumento per favorire la comunicazione e talvolta invece diventa un vero e proprio freno per questa.
Io, che sono un grande accusatore della televisione che ritengo strumento di mistificazione della realtà, in questo caso la sostengo. Se volete capire quanto il linguaggio possa essere ingannevole e funzionare anche male, guardatevi un quarto d’ora di televisione: è già più che sufficiente per far comprendere in modo chiaro questo concetto.
La televisione è quello strumento che in pochi istanti può farci capire i grandi limiti del linguaggio, se non ne avete una fatevela prestare e guardatela per alcuni minuti. Poi però restituitela perché altrimenti invece che farvi capire questi limiti cominciano a farvi il lavaggio del cervello e a convincervi che esiste una sola realtà, quella della televisione appunto, supportata dal linguaggio televisivo che ormai è l’unico universalmente accettato. Alla faccia dei proclami del papa.