SPECIFICITA’ DELL’INTERVENTO RIABILITATIVO

Non che adesso voglia mettermi a scrivere che la fisioterapia è un’arte per farmi attaccare ad un albero dai fisioterapisti ma… poco ci manca.

Non voglio invadere il campo dei fisioterapisti, non sono un fisioterapista, ma mi tocca scrivere che alla base di ogni intervento riabilitativo bisogna anche chiedersi dove il paziente vuole arrivare, meglio, dove la “persona” vuole arrivare perché il “paziente” è prima di tutto una persona.

Così può accadere che un intervento riabilitativo sia molto facile perché il soggetto partendo da una patologia nemmeno tanto grave ed insistente vuole semplicemente mettersi a fare la persona normale in tempi accettabili oppure può essere che l’intervento riabilitativo sia molto difficile e complesso perché la persona oggetto del protocollo riabilitativo si sente giustamente uno sportivo, un atleta, ed ha pure la presunzione di tornare molto competitivo in una certa disciplina sportiva, presunzione più che lecita, e di farlo pure in tempi brevi e tale presunzione purtroppo non è invece per niente lecita perché con la fretta non si fa bene proprio niente, non si va nemmeno al WC ad espletare i bisogni fisiologici.

Il fisioterapista può trattare il primo tipo di soggetti senza nemmeno interpellare nessun altro e quando il paziente saluta il fisioterapista è praticamente a posto. Il fisioterapista può trattare in un primo momento anche il secondo soggetto che ha presunzioni ben superiori ma se si illude di essere il personaggio che lo riconsegna con successo certo alla pratica sportiva forse è un po’ presuntuoso. Mi spiego: un accidenti qualsiasi viene sistemato al 100% dal fisioterapista e non c’è bisogno di fare i miracoli per tornare alla situazione antecedente a quella prima dell’accidenti. Ma la maggior parte degli accidenti degli sportivi soprattutto non giovani e di lungo corso (attenzione che non è necessario essere vecchi per essere sportivi di lungo corso, ci sono calciatori che a vent’anni giocano a calcio già da 15 anni e  pertanto devono necessariamente essere definiti “sportivi di lungo corso” anche se non sono per niente vecchi…) non sono per niente normali e sono il risultato di sovraccarichi accumulati in lunghi anni di pratica di un ben determinato sport. In tali casi il fisioterapista è certamente importante ma non fa i miracoli ed è molto probabile che non riesca a risolvere al 100% il problema. A quel punto i miracoli deve farli l’atleta stesso o chi gestisce la sua preparazione sportiva perché si tratta di conciliare l’esigenza di un elevato rendimento sportivo specifico in un ben preciso contesto con una situazione fisiologicamente non perfetta e di potenziale conflitto cronico con le pretese del paziente-atleta. Tantissimi sportivi mollano lo sport agonistico perché non si rassegnano ad un rendimento sportivo inevitabilmente condizionato da vari acciacchi cronici la cui risoluzione è spesso soddisfacente ma mai definitiva e totale.

Allora qui il problema si divarica perché c’è  una fase della riabilitazione che è scienza ed io direi che è proprio quella dei fisioterapisti che ti fanno tornare una persona normale, ma se tu in realtà una persona normale non lo sei perché sei un “artista” che vuole esibire particolari gesta, allora devi vedertela con personaggi che non sono scienziati ma sono artisti e devono capire quali gesta artistiche tu possa offrire con un determinato fisico. Insomma l’atleta perfetto non esiste nemmeno prima di infortunarsi non può diventarlo certamente dopo essersi infortunato anche se da certi infortuni ci si riprende talmente bene che si ha la presunzione di dire “Sono tornato perfetto…”

Pertanto c’è una prima fase della riabilitazione che può anche essere orchestrata con protocolli abbastanza standardizzati ed una seconda fase della riabilitazione, a seconda delle precise esigenze dell’atleta appunto che deve essere decisamente individualizzata e studiata su misura proprio sulla base dei programmi sportivi dell’atleta.

Trattando di risultati terapeutici dobbiamo distinguere fra un risultato assoluto, risultato purtroppo piuttosto raro, quando l’atleta è completamente riabilitato e pronto per affrontare qualsiasi compito sportivo e risultati relativi dove questa relatività deve necessariamente essere misurata con riferimento agli impegni sportivi dell’atleta.

Per fare un esempio: un tendine d’Achille quasi perfettamente ristabilito ma che presenta ancora dolorabilità nel gesto corsa non si può definire curato in modo soddisfacente per un podista, quando invece può esserlo magari per uno sportivo del tiro con l’arco.

Al contrario un tendine d’Achille che non è ancora in piena fase di recupero, che addirittura minaccia di non tornarci più dopo lunghi mesi di stop ma che consente di correre almeno a bassi ritmi con riferimento alla pratica sportiva di un corridore di lunghe distanze non è un tendine del tutto da buttare.

Mi spiego: l’esempio del tendine d’Achille che ha reazioni del tutto particolari non è per niente casuale però questo esempio può funzionare anche per altri tipi di patologie perché molte presentano decorsi anche difficilmente prevedibili.  A volte il tendine d’Achille non reagisce in modo eccelso ai protocolli riabilitativi. Ha un primo miglioramento apprezzabile ma in una fase successiva i risultati sembrano andare incontro ad una stasi ed impiegano veramente molto tempo per concretizzarsi e per passare da un livello di salute ad uno appena successivo.

Può accadere che in tale processo arrivi un momento nel quale questo tendine, pur non essendo del tutto ripristinato consenta di correre. A quel punto si pone una disputa amletica che però non è che sia del tutto amletica perché è pure sportiva nel senso che è un discorso che riguarda direttamente lo sport. Il fisioterapista, dal suo punto di vista può dire: “Guarda, purtroppo non sei del tutto guarito, per conto mio devi guarire completamente e poi potrai affrontare tranquillamente la pratica della corsa”. Domanda: “Dopo quanto tempo?” risposta: “Non si sa, possono essere alcune settimane, anche mesi è pure possibile che questo momento non arrivi quasi mai e che il recupero di questa struttura sia parziale e non si superi mai un certo livello…”. A quel punto l’atleta si sente autorizzato a fare degli esperimenti e per conto mio sono esperimenti del tutto leciti perché a fronte di un possibile stop che può durare anche un anno è anche giusto correre dei piccoli rischi. Ho scritto piccoli rischi e non follie improponibili. L’atleta prova a corricchiare e succede (e succede davvero ed è documentato e si fa fatica a capire perché è così ma in proposito c’è una buona statistica) che in un primo tempo pare che sia un po’ una fesseria, si sente un po’ di male, la corsa non è ancora buona ed ha un atteggiamento protettivo nei confronti della struttura che rischia anche di creare delle asimmetrie e dei carichi più elevati su altre strutture. Però il dolore non peggiora, l’atleta insiste con calma ed il dolore invece di peggiorare tende ad attenuarsi, la corsa è meno sgangherata, più fluida ed armonica, l’atleta non è completamente ripristinato ma nel giro di un paio di settimane è decisamente più efficiente di prima. Quell’atleta pur non essendo guarito aveva certamente bisogno di correre e la corsa ha fatto in quindici giorni ciò che le ultime esercitazioni di riabilitazione non avevano fatto in due mesi. C’è un nuovo rischio ed in questo sta la complessità e la specificità dell’intervento riabilitativo, che con l’adozione della corsa, carico certamente utile per restituire funzionalità specifica alla struttura, l’atleta si è posto nella condizione di rischiare di più, si sente più sicuro, si sente pronto a sperimentare ulteriori livelli di carico e così come con la corsa ha creato un nuovo livello di salute sempre con la corsa arriva al fattaccio che lo fa retrocedere ad un livello precedente.

Insomma la corsa che ha una funzione riabilitativa superiore a quella di tutte le altre esercitazioni può anche essere quella che, modulata male, fa tornare l’atleta nella condizione di sovraccarico, una vera e propria arma a doppio taglio che va usata con molta prudenza.

Allora è chiaro che ad un certo livello di ripristino saremmo portati ad indagare su quale sia lo stato dell’arte (e adesso la chiamo proprio “arte”) con riferimento preciso agli stimoli che vogliamo andare a somministrare nella pratica di un certo sport.

Per cui non esisterà una salute “assoluta” di una certa struttura ma una salute “relativa” che viene misurata dalla capacità di produrre certe prestazioni.

Il formidabile Heile Gebrselassie dopo aver corso i 5000 metri in 12’39” ed i 10.000 in 26’22”, entrambi record mondiali, ha avuto seri problemi ai tendini, superati quei problemi ma con tendini non certamente nuovi lo stesso Gebrselassie è andato anche alla leggendaria impresa di correre la maratona in 2 ore 3 minuti e 59 secondi cosa che per un tendinopatico non è molto normale. Chiaramente quel Gebrselassie che ha corso la maratona in due ore e tre minuti non era più quello in grado di correre i 5.000 metri in meno di 12’40” ma ciò non gli ha impedito di ottenere un’impresa altrettanto leggendaria. Diciamo pure che l’impresa è stata decisamente leggendaria se collegata al fatto che uno che ha già stabilito i record del mondo dei 5.000 metri e dei 10.000 metri una volta che si trova i tendini malconci potrebbe anche pensare che ha già dato abbastanza all’atletica. Lui invece ha pensato che era giunto il momento di andare alla caccia del record del mondo nella Maratona. Con una dietrologia un po’ curiosa ci si può chiedere se un Gebrselalassie con i tendini sani si sarebbe mai preoccupato di tentare il mondiale della maratona o non avrebbe invece provato a riprendersi quelli dei 5.000 e 10.000 nel frattempo ritoccati dall’altrettanto leggendario Kenenisa Bekele.

Il tempo di 2 ore 3 minuti e 59″ sulla maratona di Heile Gebreselassie può essere definito l’ultima grande impresa di un campione leggendario oppure anche uno splendido esempio di riabilitazione di una struttura che non può tornare come nuova ma che se trova un suo equilibrio può contrubuire ancora a gesta leggendarie. Ecco, come è stato leggendario Gebrselassie ci tocca dire che sono stati leggendari pure i suoi tendini. Per conto mio anche un certo tipo di riabilitazione è un’ arte. Ovviamente sono tutti pareri personali.