PTG E LA SCUOLA

Ha destato molto clamore in questi giorni la presa di posizione del Ministro della Pubblica Istruzione Bussetti sulla questione dei compiti a casa e io mi sono prontamente schierato dalla sua parte dichiarandomi estremamente favorevole ai contenuti del suo messaggio. Poi, ovviamente c’è chi non è per niente contento, che reputa che questa mossa sia solo una prepotente intromissione sulle strategie didattiche e che se proprio aveva qualcosa da dire poteva dirlo ben prima dell’inizio dell’anno scolastico e non a giochi già fatti quando un insegnante si è già ben pianificato il suo programma di insegnamento.

Io, continuando a sostenere il ministro e ammettendo che se su questo argomento interveniva ancora prima era meglio ma “meglio tardi che mai”, aggiungo che comunque è importante che se ne parli, che si apra un dibattito, che l’argomento sia almeno sotto osservazione, che non si dia per scontato che è scontato caricare di compiti gli allievi perché ultimamente si fa così punto e basta e che non si ignori un problema che comunque è sentito da più parti.

Personalmente, più che le intenzioni del ministro (affar suo), devo preoccuparmi di chiarire le mie posizioni ed in particolare perché mi occupo di scuola in modo così insistente, anche di argomenti che teoricamente non dovrebbero toccare la mia professione andando ad espormi in commenti che essenzialmente riguardano la didattica delle ore passate sui banchi e non delle cose affrontate in palestra.

In modo molto semplice sono convinto che soprattutto a livello di bambini, ma anche di ragazzini e ragazzi le due cose siano terribilmente interconnesse in modo molto più determinante di quanto si sia portati a credere. Anche se non credo molto alle speculazioni scientifiche sull’attività motoria, pare dimostrato “scientificamente” che gran parte dell’apprendimento dei bambini sia legato al loro vissuto motorio, apprendimento in senso generale e non specificamente ristretto alle abilità motorie.

Tento un rapido sguardo sul passato per inquadrare il mio atteggiamento. Io che sono così avaro di riferimenti personali e sono criticato per essere troppo anonimo sul mio sito (non ho nemmeno una foto del mio faccione, non mi firmo e come unica immagine uso un’immagine sfocata di podisti anonimi che scorrazzano in un parco… anonimo) mi trovo costretto a narrare sinteticamente almeno due episodi che hanno condizionato in modo decisivo il mio vissuto nella scuola. Sono fatti decisamente personali ma penso che in modo diverso abbiano condizionato anche il vissuto di altri miei coetanei nella scuola, di quella generazione, per intenderci, che non ha nemmeno provato a cambiare la scuola perché ci aveva già provato quella precedente con esiti del tutto negativi.

Prima cosa: la poesia a memoria. Per me la poesia a memoria non sono fatti simbolici ma fatti concreti, realmente accaduti: non sapete quante poesie a memoria mi sono state proposte (ma dovrei quasi dire “imposte”) nella mia infanzia di scolaro. Ed io mi bloccavo, riuscivo a cavarmela (in certe cose anche egregiamente: la matematica ce l’avevo innata, mai studiato matematica, ce l’avevo dentro e basta) ma di fronte alla poesia memoria ero proprio in tilt assoluto, addirittura mia mamma si era inventata che ero timido per giustificare il fatto che sulle poesie ero disastroso, ma era una balla perché io ero timido con le bambine della mia età ma non con le insegnanti con trent’anni più di me alle quali ci mancava solo che dicessi (e per fortuna che non è mai accaduto perché poteva pure accadere…): “Ma insomma la smettete con queste poesie a memoria, vi occorre tanto per capire che sono una noia mortale?!”. La poesia a memoria mi ha perseguitato per tutta la scuola perché prima era una vera e propria poesia poi era il Manzoni obbligatorio, poi l’altrettanto obbligatorio Dante e lì, da quasi adulto sono arrivato ad un compromesso con la profe di italiano: “Tu non mi stressi con Dante ed io mi impegno di più su tutti gli altri”. Uno contro tutti e la profe in modo molto discreto, senza mai ammetterlo pubblicamente, ha accettato questa mia proposta e spero che abbia capito che non era assolutamente un ricatto ma solo una supplica anche perché il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lei ed avrebbe potuto benissimo bocciarmi per questa mia refrattarietà su Dante.

Questi, relativi alla poesia a memoria e a tutti i correlati dello studio coercitivo, sono una serie di episodi mentre il secondo è un episodio solo ma piuttosto pesantino e più passano gli anni e più mi rendo conto che è stato pesantino e se accadesse nella scuola odierna ci si potrebbe fare pure un articolo sul giornale. Erano gli anni immediatamente successivi al ’68, il ’68 era già morto ma si sentiva ancora l’odore del suo cadavere che, evidentemente non era ancora stato portato via. Me ne accorsi che questo cadavere era ancora lì, una tranquilla mattina di ottobre pochi giorni dopo l’inizio della frequentazione della scuola per geometri. Ero già alla terza nota sul registro per fatti fortuiti (il terzo un po’ meno fortuito degli altri due) e finii dal preside come un missile. Questi, senza chiedere cosa avevo combinato per meritare quelle tre note, (l’ultima delle quali per un innocente lancio di aeroplanino di carta dal terzo piano con conseguente esultanza per il bel volo dello stesso in contemporanea con l’entrata in classe della profe non molto convinta sull’opportunità del gesto) con atteggiamento molto aggressivo e risoluto commentò “Guarda che tu in questa scuola hai già rotto i c.” Io rimasi esterrefatto dell’atteggiamento e del linguaggio scurrile, e per dire, ero di quelli che se in casa osavo dire la parola usata per intimidirmi dal preside subito mi riprendevano “Non si dicono le parolacce!” Ci restai molto male, tentai in tutti i modi di non fare più fesserie tipo quelle dell’aeroplanino e, nonostante tutto, quel quadrimestre presi otto in condotta, unico otto in mezzo ad una sterminata serie di dieci in condotta sempre presi in modo molto meritato perché a scuola io ho sempre pensato che innanzitutto rispetto l’insegnante e rendo più facile il suo lavoro e dopo vediamo se riesco pure a portarlo dalla mia parte su certe cose (come, per esempio, nell’accordo segreto su Dante…). Ebbi subito la percezione che quel “Hai rotto i c…”. Non c’entrava nulla con l’aeroplanino e neppure con una eventuale giornata storta del preside. Quel messaggio secco era ben diverso e voleva dire più o meno così: “Guarda che quelli che fanno gli strafottenti e vogliono cambiare la scuola in modo prepotente li abbiamo già repressi da qualche anno, la scuola è questa e non  si cambia, che non credi di venire a fare tu il rivoluzionario, il ’68 è morto…”. Sono sempre più convinto che il messaggio che volesse far passare fosse quello e se avesse saputo che ero andato in presidenza per un aeroplanino avrebbe contattato la profe dicendo che non era il caso di farne un dramma.

In ogni caso è rimasta in me la percezione e ce l’ho ancora adesso un tot. di decenni dopo che tutti i dirigenti scolastici hanno una fottuta paura del cambiamento e sembrano messi lì a fare i cani da guardia a verificare che il ’68 non crei degli strascichi e sia mai che la scuola possa un po’ evolversi. In breve ho pure paura che la sindrome della poesia a memoria nella scuola non sia ancora stata debellata. L’inflazione del nozionismo ed una certa riluttanza a far ragionare davvero lo studente esistono ancora e si ha ancora paura che a scuola si faccia politica. Guai a far politica a scuola che non torniamo al ’68.

Corollario a tutto ciò, io posso dire che critico la scuola per il semplice motivo che ne ho una profonda stima, che sono convinto che sia proprio la scuola a poter salvare la società e sono convinto che se il mondo del lavoro fa semplicemente schifo perché a fronte di milioni di lavoratori che si ammazzano di lavoro con turni di lavoro insopportabili ce ne sono altri milioni che stanno a casa a non fare nulla ed allora anche un bambino capisce che il lavoro non manca ma si tratta solo di distribuirlo meglio, a fronte di tutto ciò sono pure convinto che questa società funziona male perché è il mondo del lavoro che comanda la scuola quando dovrebbe essere l’esatto contrario. La scuola deve funzionare meglio e dare le informazioni per migliorare la società non per subirla così com’è.

E’ chiaro che una scuola che fa così fa politica. Ma una scuola non può non far politica perché anche se non la fa vuol dire che sostiene fortemente quella di chi la fa. E dunque sostenere fortemente un certo tipo di politica equivale a farla.