PALLAVOLO E VITTORIE

L’Italia vince i mondiali di pallavolo maschile, era un tot. che non succedeva ed è indubbiamente un risultato storico, colossale.

Viene intervistato in televisione il miglior giocatore, l’intervistatrice fa i complimenti per il fatto che hanno saputo tenere i nervi saldi anche nei momenti più difficili della finale e che avevano la capacità di sorridere anche in situazioni di punteggio altalenante e per niente tranquillizzante. Il giocatore risponde “Stavamo giocando bene e pertanto eravamo sereni. Il confine fra sconfitta e vittoria è labile, quando stai giocando bene ti diverti ed è giusto che non drammatizzi, in ogni caso stai giocando bene e stai facendo pubblicità a quello sport anche se perderai. Poi abbiamo vinto ed è meglio ancora ma questa era una buona partita in ogni caso, anche se avessimo perso…” L’intervistatrice, insiste con i complimenti e capisce che divertirsi è fondamentale anche per poter rendere bene in campo poi chiude l’intervista dicendo che comunque è molto importante vincere e dimostrando che non ha capito niente…

Il giocatore ha provato in tutti i modi a farle capire che nello sport quando ti impegni, ti diverti e giochi al meglio che vinci o che perdi hai sempre vinto almeno in termini di salute ma quella non l’ha capito anche perché è abituata ad intervistare solo campioni che devono vincere per contratto.

Allora vado in un istante alla mia pallavolo, che ho allenato per un lungo periodo, di ragazzini di 11-12 anni dove ho vinto tanto, perfino troppo, più che in atletica come atleta e dove mi sono pure divertito tanto ma non necessariamente quando vincevo di più.

Io seguivo sempre i ragazzini, li tenevo al massimo due o tre anni e poi li passavo agli allenatori delle categorie superiori. Mai allenato pallavolisti di alto livello e nemmeno pallavolisti maturi e tecnicamente evoluti anche se non particolarmente performanti, solo principianti o poco più. Ho vinto tanto perché ho avuto la fortuna di seguire squadre di ragazzini dotati che arrivavano in palestra che sapevano già trattare la palla o comunque avevano doti motorie di base già più che discrete perché da bambini avevano giocato abbastanza e dunque non c’è niente come il gioco libero che ti prepara a tutti gli sport. La prima cosa alla quale puntavo era che si divertissero e poi ad avere un minimo di disciplina affinché l’allenamento non fosse un’indegna gazzarra ma quanto a pretese su un certo tipo di gioco o la cura particolare dei fondamentali, zero. Mandavo i ragazzini alla categoria superiore con molto entusiasmo, con una buona mobilità generale e una grande voglia di giocare, poi mi dicevano che a volte i miei allievi erano un po’ troppo “ruspanti”, con i fondamentali ancora da sistemare e un po’ anarchici e difficili da inquadrare tatticamente. Insomma mandavo alle categorie superiori dei buoni atleti che però avevano ancora tanto da imparare nella pallavolo.

Allora, per spiegare tutto, ricordo il primo giorno di allenamento. La loro allenatrice precedente, proveniente dalla pallavolo anche come atleta (non come il sottoscritto che la pallavolo l’ha frequentata solo come allenatore…), mi disse che cedeva la squadra per problemi organizzativi del suo lavoro e mi diceva che i ragazzini erano tutti bravi anche se c’era qualche problema di disciplina. erano un po’ riluttanti verso un certo tipo di preparazione.

Mi presentai in palestra e questi erano tutti là, seduti fermi (non era ancora il tempo dei telefonini ma se lo fosse stato avrebbero avuto tutti il loro bel telefonino fra le mani, per spiegare l’atteggiamento…) fra lo spogliatoio e la palestra, già cambiati ma stranamente seduti, fermi, in attesa di chissà che cosa. Come presentazione, prima ancora di dire “Ciao”, mi dissero che non volevano fare certi esercizi di preparazione ed io esordìì in modo un po’ pittoresco. A questi seduti tutti in fila e terribilmente fermi dissi: “No, no per carità, io devo morire ma voi dovete giocare, dove sono i palloni?” Presero la palla a non la mollarono più fin che non smettei di allenare un bel po’ di anni più tardi, non ricordo di aver mai condotto un allenamento di pallavolo senza palla nella mia lunga carriera di allenatore di pallavolo.

Allora sulle vittorie e le sconfitte mi viene in mente che le vittorie più belle le ho avute con le poche squadre che ho avuto che vincevano poco mentre le sconfitte più pesanti le ho patite con le altrettanto poche (per fortuna) squadre che ho avuto che vincevano quasi sempre. Vincere fa certamente comodo, non c’è dubbio, ma proprio con la pallavolo ho capito che ti diverti di più con la squadra che vince parecchio che con la squadra che vince quasi sempre. Le sconfitte con la squadra che vince quasi troppo sono quasi sempre un osso duro. Al contrario con la squadra che perde tanto è difficile tenere gli equilibri, la sconfitta fa male a tutti ma la grande consolazione è che quando vinci è un gaudio e tripudio incommensurabile.

In ogni caso è compito dell’allenatore anche e soprattutto a questa età minimizzare sul peso della vittoria e della sconfitta e portare serenità ai giocatori con discorsi tranquillizzanti come quelli del giocatore che ha vinto i mondiali e che l’intervistatrice non è riuscita a capire.

Sdrammatizzavo sul risultato e alcuni dei più bei ricordi che ho di quel periodo sono legati proprio a quei grossolani tentativi di sdrammatizzazione, quasi grotteschi, mi piace riportarne alcuni anche con un po’ di sana nostalgia ma potrei scriverne un libro.

Un classico era il ragazzino che aveva paura. Premessa, le squadre erano miste, in genere prevalentemente femminili, quando arrivava un maschio era facile che ne arrivasse poi almeno un altro, il CSI (Centro Sportivo Italiano) prevedeva comunque la possibilità della squadra mista. Ecco, che fosse maschio o femmina poco cambiava, l’undicenne o dodicenne tipo che fosse maschio o femmina aveva comunque una paura fottuta della partita e quando arrivava in panchina (obbligatorio perché si giocava a giro, tutti prima o poi, arrivavano in panchina) mi diceva “Ho paura, adesso fra un po’ devo rientrare… e se perdiamo?” ed io “Anch’io ho una paura incredibile e pensa che non posso nemmeno entrare e se anche mi facessero entrare sarei un disastro e rovinerei tutto, almeno tu puoi entrare e giochi e ti passa la paura io invece sono qui fermo fin che non è finita…” Si mettevano a ridere e non sapevano se avere ancora più paura perché si sentivano senza allenatore o se continuare a ridere, in genere ridevano e basta.

In conseguenza di ciò e del fatto che io, per partito preso, non urlavo mai a nessuno in campo, capitava che molti in panchina mi dicessero anche: “Ma perché non ci dici niente quando sbagliamo? Lo senti che l’allenatore degli altri ogni volta che sbagliano gli dice un sacco di cose?” E lì io ero più preciso “Quando sbagli non ti dico niente proprio perché non ho niente da dirti se proprio devo dirti qualcosa te lo dico appena vieni in panchina e non in campo che sentano tutti… Quanto all’allenatore degli altri che parla tanto sappi che ho fatto una statistica (era terribilmente vera…): più parla l’allenatore avversario alla squadra in campo e più aumentano le nostre possibilità di vincere. Eravamo arrivati al punto che i miei giocatori aspettavano con ansia il momento in cui l’allenatore avversario parlava di più perché quello era il segnale che la partita andava per il meglio.

A coronamento di questo comportamento ricordo un episodio che se ci fosse un filmato in giro di quello non so cosa pagherei per vederlo.

I ragazzini erano giovani ed erano per lo più accompagnati alla partita dai genitori che affollavano le tribune. Con i genitori si instaurava indubbiamente un certo rapporto che non sempre era facile perché si sa (e questo nel calcio è molto peggio che nella pallavolo) che ogni genitore vorrebbe vedere giocare il proprio figlio in un modo che non è certamente quello scelto dall’allenatore. Un giorno alla partita non so perché cavolo di motivo mi alzai dalla panchina, non certamente per inveire contro qualcuno ma per qualche accidenti di motivo. Un genitore di un ragazzino della mia squadra al centro tribuna si alzò e ad alta voce disse “Fermi tutti! Silenzio! Si è alzato! C’è qualcosa… sentiamo cosa deve dire! Silenzio!” Tutti i genitori dei ragazzini della mia squadra creparono dalle risate e poco dopo, informati del fatto che io non mi alzavo mai dalla panchina, nemmeno per sbaglio, anche i genitori dell’altra squadra si misero a ridere.

Meno edificante ma non meno d’effetto (di questa non vorrei vedere il filmato e rischia pure di esserci perché è successa più di una volta…) il gesto di fine partita di alcune ragazzine della mia squadra (premetto che le più “vecchie” potevano avere al massimo tredici anni e dunque non erano atlete “navigate”) dopo che avevamo vinto una partita molto difficile. Per caricarle ed al tempo stesso sdrammatizzare mi capitava spesso di dire: “Purtroppo questa volta non c’è niente da fare, le avversarie sono troppo forti, sono di un altro livello, voi tentate di giocare bene, fate più punti possibile ma non prendete paura, questa la perdiamo di brutto e pertanto non c’è niente da arrabbiarsi, state tranquille, andrà meglio un’altra volta…” Vincevano e andavano via facendo il gesto dell’ombrello a me che, anche se non il massimo dell’educazione, ero orgogliosissimo di quel gesto dell’ombrello perché il mio obiettivo era che la mia squadra fosse educata e rispettosa con l’avversario non con me. Praticamente l’avversario numero uno ero io più che la squadra avversaria, che avevo detto che quel giorno proprio non c’era niente da fare. Alla fine era un gesto dell’ombrello affettuoso e voleva dire “Brutto stronzo, hai provato a farci prendere paura con le tue profezie del cavolo…”

E’ curioso dire che si è nostalgici di un gesto dell’ombrello ma io quando intendevo che si può davvero perdere senza prendersela più di tanto ero terribilmente convinto di ciò che dicevo, questo è fondamentale nella pallavolo come in tutti gli sport. Il giocatore della nazionale l’ha certamente capito, la commentatrice televisiva non lo so.