IL VERO VUOTO CULTURALE DELLO SPORT ITALIANO

Lo sport italiano non è tutto da buttare, purtroppo vive una stridente contraddizione: in quella che è la fascia di età del massimo rendimento (ma già prima…) vede un “bucone” nella partecipazione alla pratica agonistica. Assurdo ma mancano gli atleti nella fascia compresa fra i 15 ed i 30 anni. E’ la fascia d’età nella quale tutte le persone sane dovrebbero praticare sport agonistico. Invece a parte una élite di scatenati che punta ad ottenere risultati di vertice e per questo fa cose mirabolanti, gli altri vivacchiano su un’attività pseudo agonistica priva di ambizioni di alcun tipo.

Insomma si passa dal “quasi professionista” all’amatore in un’ età dove lo spirito amatoriale dell’attività sportiva dovrebbe essere ancora distante.

A completare il quadro di questa anomalia abbiamo ragazzini di 14-15 anni già in grado di ottenere prestazioni da veri atleti in molti sport e quarantenni che riprendono l’attività agonistica con il piglio di un atleta al top della carriera. Insomma sembra che la famosa e datata canzone di Gigliola Cinquetti “Non ho l’età” (vinse a Sanremo nel 1964…) sia stata scritta proprio per loro.

Io ho già scritto troppo dell’inesistenza della scuola italiana sulle cose riguardanti l’attività motoria e lo sport in genere e non voglio ripetermi su questo punto in modo maniacale anche perché ritengo che, tutto sommato, anche se la scuola “latita” da questo punto di vista il cittadino è comunque in possesso di alcune carte da giocare per poter porre rimedio a questa lacuna.

Insomma la scuola lancia un messaggio sbagliato del tipo “Lo sport conta poco, è un fatto sociale trascurabile, vedete voi se è il caso di perderci su un po’ di tempo…” ed i cittadini recepiscono in toto questo messaggio educativo più o meno così “Si, in effetti lo sport non è una cosa importante, già verso i 14-15 mi sono reso conto che probabilmente non sarei mai diventato un campione, adesso lo abbandono del tutto poi forse verso i 35-40 anni riprenderò (scatenato come un vero represso… ndr)”.

L’atteggiamento dimesso evidentemente è dei ragazzi, stritolati dagli impegni scolastici e l’avvallo è dei genitori immersi nella cultura della competizione scolastica e convinti che il figlio che studia di più senza “perdere tempo” con lo sport avrà certamente più possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Poi il mondo del lavoro dirà che si inserisce meglio chi ha più capacità di adattamento e non chi ha studiato di più ma quella è una cosa che non conta.

Volendo lavare i panni sporchi in casa propria (troppo facile lavarli criticando la scuola…) io dico semplicemente che lo sport italiano è troppo competitivo e questo eccesso di competitività finisce per svuotarlo. E’ un paradosso ma è così. E’ come se in un parco divertimenti ci fosse una di quelle giostre che fanno paura ma questa fa così paura ma così paura che la maggior parte dei potenziali partecipanti non ci salta su ma si limita a guardare una ristretta cerchia di pazzi scatenati che provano a farci un giro. Lo sport italiano è così competitivo che si ha paura a saltarci su, almeno si scende nel momento più importante per risalire molto più tardi solo quando la giostra ha perso giri.

Sono gran pochi gli italiani che scoprono i loro massimi livelli prestativi in un determinato sport. Per scoprire questi non è necessario allenarsi due volte al giorno ma è semplicemente necessario continuare la pratica sportiva anche quando si è nel fiore degli anni e non solo quando si è dei ragazzini. E’ chiaro che un centometrista che corre in 10″80 allenandosi tre volte alla settimana potrebbe avere pure il sospetto che allenandosi come un dannato forse arrivava a 10″30 o giù di lì ma se fosse stato un campione da 9″90 probabilmente se ne accorgeva anche con tre allenamenti alla settimana e pertanto… avrebbe dirottato sugli allenamenti da dannato. E’ molto meno chiaro cosa avrebbe potuto fare sui 100 metri un ragazzino che a 15 anni ha corso gli 80 metri in 9″ netti e poi ha mollato la pratica agonistica perché non ce la faceva più ad abbinare studio e sport. Quel ragazzino quasi di sicuro era un personaggio che avrebbe potuto correre successivamente i 100 metri in meno di 10 secondi e mezzo e dire se avrebbe potuto arrivare vicino ai 10 netti o abbattere addirittura quel muro non lo sa nessuno. E’ un dubbio che resterà per sempre. Questi sono dubbi da non alimentare, non perché sia assolutamente necessario sapere cosa avrebbe potuto combinare quel ragazzino ma perché è assolutamente irrazionale troncare di brutto una carriera sportiva per concentrarsi esclusivamente sullo studio a 15 anni.

La “scure” dell’eccesso di competitività si abbatte indistintamente sia sul talento che sul ragazzo poco dotato. Sul primo si abbatte nel senso che quel ragazzo si sente obbligato ad allenarsi di più, proprio perché è un talento è invogliato da tutti a mettere in mostra in fretta le sue capacità ed a cercare risultati eclatanti già nelle categorie giovanili. In tal modo finisce per allenarsi molto già abbastanza presto e va ad accentuare il conflitto con gli impegni scolastici. Il “non talento”, che a volte sopravvive anche di più perché non pressato dall’ambiente sportivo, finisce comunque per fare i conti con l’eccesso di competitività, perché solo qualche anno più tardi quando, pur non essendo diventato un campione, comincia ad ottenere risultati apprezzabili i benpensanti sbottano. “Beh, insomma, 10″80 a vent’anni, forse ormai è il caso che incominci a concentrarti un po’ di più sugli studi perché un  vero campione non lo diventi più…” e così è fulminato pure quello che fino a quel momento era resistito allo stress della competizione eccessiva.

In sintesi non abbiamo una vera cultura sportiva perché con riferimento ai risultati della categoria “assoluti” siamo portati a valutarli solo se sono “assolutamente” eccezionali. Così gli “assoluti” che praticano davvero sport sul  nostro territorio sono abbastanza pochi.

Lo sport ha una sua parabola: da ragazzini si rende per quanto si può rendere e ci si deve soprattutto divertire, da sportivi “veri” fra i 20 ed i 30 anni sempre senza ammazzarsi di fatica si vede quanto si vale sportivamente parlando e poi, piano piano ci si dirige verso un’attività amatoriale che dovrà comunque essere divertente perché dovrà durare per tutta la vita e dove per alcuni la competizione sarà ancora necessaria per dare “sale” all’attività, per altri sarà un piacevole ricordo degli anni del massimo rendimento.

Questa parabola da noi non esiste e abbiamo un andamento del grafico che è più simile a quello del dorso di un cammello: c’è un primo picco esasperato da ragazzini quando ancora dovremmo essere un po’ prudenti, poi c’è un grosso “bucone” che può durare anche 15-20 anni e poi c’è una nuova gobba fin troppo alta che segna la nuova insperata giovinezza di chi ha lasciato perdere per troppo tempo lo sport vero.

Ecco, con una immagine un po’ ad effetto il grafico più razionale dello sport non è quello simile al dorso di un cammello ma quello simile al dorso di un dromedario: ha una gobba sola. Le cartucce non si sparano tutte a 15 anni o a 40 ma a metà fra quelle due età. Questione di educazione e di gusti. La fisiologia ci insegna che siamo fatti per dare il massimo a quell’età e non prima o dopo.

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