IL PROCESSO DI BOLZANO

Il processo di Bolzano ha un qualcosa di anomalo: per la prima volta in Italia (o in tutto il mondo?) in un processo sul doping si tenta di contestualizzare il problema tentando di capirlo più che affannandosi ad emettere una sentenza che deve fare “giustizia” del delitto perpetrato.

E’ un processo scomodo perché con questa scusa va a sviscerare aspetti molto complessi che non sono mai stati sviscerati nei processi convenzionali. Invece che punire l’atleta semplicemente si tenta di capire come funziona l’ingranaggio per vedere se l’atleta ha delle attenuanti e capire se il reato è davvero di portata molto rilevante.

Ne viene fuori che, più che il reato in sé per sé, è proprio il problema che è di portata rilevante nel senso che pigliare positivo all’antidoping e processare un atleta in più cambia poco nella storia dello sport, invece tentare di capire come funziona l’antidoping e capire come funziona tutta la problematica dell’alta medicalizzazione dello sport spettacolo ha certamente un significato molto importante per la gestione dello sport di alto livello.

Al momento la problematica del doping viene interpretata come un compito con il quale ci si impegna a capire quale trattamento farmacologico è lecito e pertanto non perseguibile secondo la giustizia sportiva e quale trattamento è invece illecito e come tale va perseguito e sanzionato con una squalifica. La questione morale non è minimamente affrontata da un atteggiamento simile ma soprattutto la salute dell’atleta non è messa in primo piano.

Gli atleti di alto livello in linea di principio non dovrebbero mai risultare positivi al doping perché sono assistiti da medici che sanno benissimo cosa è lecito e cosa non è lecito. Inoltre, è doveroso precisarlo, sanno anche come fare, in ogni caso, per evitare che l’atleta da loro assistito risulti positivo ai controlli. Questo non è un dettaglio da poco perché scavalca in un sol colpo una eventuale questione “morale” che di fatto non è mai esistita.

Detto questo è facile capire come gli atleti che vengono trovati positivi ai controlli antidoping siano atleti che hanno qualche problema di assistenza medica. O il loro medico è sprovveduto o comunque hanno commesso qualche ingenuità sfuggita al controllo dei loro medici che ne ha provocato la sanzionabilità. In entrambi i casi un minimo di responsabilità da parte dei medici c’è: nel primo caso è diretta ed un po’ più pesante nel secondo caso è indiretta e provocata da una ipotetica sfiducia dell’atleta nei confronti del suo medico. Tale sfiducia provoca il disastro con l’antidoping. Giustissimo sanzionare l’atleta che vuole “barare” improvvisandosi medico.

Lasciando da parte un momento la questione morale che si presta a discorsi infiniti (dal mio punto di vista è più “pulito” l’atleta che non ha nessuna assistenza di quello che ha costantemente al suo cospetto una equipe di scienziati che ne continua a monitorare una infinità di parametri) c’è un discorso “salute dell’atleta” che viene continuamente ignorato in tutti i processi al doping. Con queste leggi è importante che l’atleta risulti negativo ai controlli e che, se viene pigliato positivo, minimizzi il più possibile il problema senza dare informazioni importanti per comprendere il problema nella sua globalità. Fino ad ora chi tentava difese un po’ imbarazzanti spostando il problema dal suo caso personale al mondo dello sport in generale è sempre stato punito con pene severe. L’inquadramento del problema è sempre stato visto come un goffo tentativo di spostamento del punto di osservazione invece che come una proposta di collaborazione.

Imbarazzante la posizione dei cosiddetti atleti “certificati” che non sanno nemmeno che differenza ci sia fra praticare sport senza l’ausilio farmacologico o con quell’ausilio perché loro devono cronicamente assumere certi farmaci e quando qualche atleta viene pigliato positivo, invece di ammettere che è risultato positivo a farmaci che loro hanno sempre preso, tuonano indignati per il nuovo motivo di scandalo. Alcuni atleti si augurano quasi di poter essere certificati “malati” per poter evitare noie con l’antidoping.

Esiste un grande abuso di farmaci nello sport di alto livello, questo è il primo problema da affrontare. E’ importante capire, per la salute degli atleti, a che conseguenze può portare nel medio e nel lungo periodo questo abuso di farmaci e, a mio parere, questo problema è più grave ed urgente di quello di determinare chi sia il santo che può buttare giù tutti i farmaci che vuole e chi sia il demone che non deve assolutamente provarci.

L’antidoping può avere un senso per controllare gli atleti delle categorie amatoriali, quasi mai assistiti in modo continuativo da un punto di vista medico e talvolta portati a compiere scemate assolutamente intollerabili per migliorare il loro rendimento sportivo.

Non ha alcun senso l’antidoping con riferimento agli atleti di alto livello perché questi sono assistiti costantemente e non possono risultare positivi all’antidoping, salvo errori clamorosi nell’assunzione di determinate sostanze. Potrebbe avere senso, se fosse resa possibile tecnicamente, la pubblicazione di dati inerenti tutti i trattamenti farmacologici ai quali si sottopongono questo tipo di atleti. Purtroppo, con la legislazione vigente, questo progetto futuribile non è assolutamente una via praticabile.

Se il processo di Bolzano avrà un seguito e potrà procedere senza interferenze di alcun tipo potrebbe portare anche a fare luce su queste problematiche. A quel punto sarebbe molto più che un normale processo sul doping ed uno spauracchio per chi ha sempre affrontato il problema con un’omertà scandalosa (quella è si davvero scandalosa ed è l’unica cosa veramente scandalosa in tutta la questione doping…) ma potrebbe portare ad un nuovo modo di affrontare il problema partendo dal punto di vista della salute dell’atleta più che dal pietoso punto di vista dell’affannoso salvataggio dell’immagine superficiale dello sport di alto livello.